19-Nothing

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Voltai il capo verso Dylan e lo fissai con le sopracciglia aggrottate. Inizialmente pensai che l'avesse confusa con un'altra ragazza, tuttavia più osservava la mia amica, più sembrava convinto di quanto affermato. Loro due non parlarono, dunque fui io a spezzare quel silenzio carico di sguardi penetranti e di tanta tensione.

«Ti sbagli, il suo nome è Kay...»

M'interruppi e in un attimo fui incerta delle mie stesse parole. Ragionai qualche secondo e capii che se qualcuno mi avesse scambiato per un'altra persona, avrei assunto un'espressione corrucciata, oppure avrei rivelato il mio nome, confermando il suo sbaglio, tuttavia Kayla non fece nulla, si chiuse solo in un silenzio religioso.

Osservai i suoi occhi azzurri e li potei definire spenti e privi di emozione, quasi come se la sua anima avesse abbandonato il corpo.

«Magari no, sono io a sbagliarmi.» Fissai con ira, quasi disgusto, la bionda, la quale, sorpresa dal mio tono di voce, che mai era stato così aspro - scortese sì, ma mai avevo mostrato ribrezzo -, fece scattare i suoi occhi chiari verso di me.

«Non è come credi!» Affermò subito, probabilmente tentando di rassicurarmi, però il tremolio della sua voce la tradì.

«Già, è quello che dicono i colpevoli, Kayla, o forse dovrei dire Katherine.» Sbottai, incapace di contenere la mia rabbia, nonostante avessimo Dylan come spettatore silenzioso.

La bionda continuò a tenere la bocca serrata e m'innervosì sempre di più: non ero certo famosa per il mio temperamento. A parlare, dunque, fu Dylan, il quale si rivolse alla ragazza che credevo fosse mia amica, ma che in quel momento riconoscevo solamente come un'estranea.

«Pensavo ti avessero uccisa!» Esclamò, come se solo in quel momento si fosse realmente reso conto della situazione. Si avvicinò a lei e, delicatamente, quasi avesse paura di farle male, le spostò una ciocca bionda dal viso, poi l'abbraccio, stringendola contro il suo petto.

Una saetta mi attraversò lo stomaco; la ignorai, giustificandola come una conseguenza della situazione in cui ero finita. La realtà, ovviamente, era ben diversa. Come poteva una ragazza come me, che amava il divertimento e odiava l'impegno serio, provare un senso di fastidio quando vedeva un ragazzo qualsiasi abbracciare una ragazza? Non poteva, ecco perché mi limitai a sopprimere tutto e a definirlo come semplice attrazione fisica. Non appena sarebbe sfociata in una sana notte di sesso, sarebbe stata spazzata via come fa il vento con un granello di sabbia.

A riportarmi alla realtà furono i forti singhiozzi di Katherine; la frase che aveva precedentemente pronunciato Dylan attraversò la mia mente: "Pensavo ti avessero uccisa".

Grazie a quelle quattro parole mi ricordai di quanto aveva affermato durante la notte passata in hotel, quando, ubriaco marcio, mi aveva chiesto di essere accompagnato in un posto qualsiasi, lontano da casa sua, in modo che potesse scappare da una dolorosa verità.

«Dove ti accompagno?» Chiesi, osservandolo per qualche istante.

«Mi accontenterò di un hotel qualsiasi.» Comunicò passandosi una mano tra i capelli.

«Non hai una casa?» Sollevai le sopracciglia, con un sorrisetto fastidioso dipinto sul viso.

«Perché non ti fai gli affari tuoi?» Domandò.

«Sono in procinto di accompagnarti in un hotel, dopo che sei venuto a cercarmi e avermi urlato contro senza un apparente motivo. Ci terrei a precisare, inoltre, che non provo alcun tipo di simpatia nei tuoi confronti, quindi mi devi delle spiegazioni.» Ghignai sapendo di avere la vittoria in pugno.

«Preferisco non passare il resto della serata a casa mia, contenta?» Contrasse la mascella, fissando assiduamente la strada che aveva davanti.

«Perché sei ubriaco e per quale ragione non vuoi tornare a casa tua?» Domandai allora, colta da un pizzico di curiosità.

«Mi sono ubriacato perché questa vita di merda mi ha portato via mia sorella.» Urlò di getto.

Si trattava di lei; la ragazza che credevo fosse mia amica era la sorella di Dylan Ivanov.

Rimasi ancora più smarrita, a causa dei racconti di Katherine, riguardanti i suoi famigliari, i quali l'avevano venduta al nemico, senza mostrare nessuna pietà. Quando mi aveva raccontato delle sue sofferenze, mi ero sentita importante per qualcuno e al contempo, avevo trovato una persona di valore ; le sue storie sembravano così vere che mai ne avrei dubitato, tuttavia, a causa di quella situazione e delle menzogne che mi aveva raccontato, cambiai idea.

Forse era solo una farsa; magari anche la nostra amicizia non è vera. Mi ritrovai a pensare, con la mente annebbiata dalla rabbia e dalla confusione.

In poco tempo le ipotesi che aveva elaborato il mio cervello si fecero sempre più reali e, in un attimo, mi sentii ferita; un nuovo e fastidioso dolore prese ad attanagliarmi il petto. Mi diedi della stupida, giacché mi ero illusa che, dopo la sua morte, qualsiasi delusione sarebbe stata facile da superare e che non avrei più sofferto a causa di qualcuno.

Riuscivo a sentire le lacrime pungermi gli occhi, bramose di venir fuori, di scorrere lungo la mia guancia, fino a cadere verso il basso, schiantandosi contro il suolo duro e freddo. Serrai la mascella e sbattei le palpebre più volte, facendo scomparire il luccichio che gli aveva resi più luminosi. Con le unghie che pungevano e perforavano il palmo della mia mano, lanciai un ultimo sguardo ai due e, con lentezza ed eleganza, mi voltai, camminando verso l'uscita.

Aveva iniziato a piovere, però in quell'istante non m'importava molto; mentre camminavo priva di vitalità lungo la strada deserta, avvertivo le gocce d'acqua bagnare i miei capelli e i vestiti sgualciti. Non mi ero voltata indietro, on avevo voglia di vedere il volto felice di Katherine, mentre il mio era una macchia informe di delusione e amarezza.

«Alexandra, ti prego fermati!» Aveva detto, mentre correva sull'asfalto bagnato cercando di raggiungermi. Non aumentai il passo e non mi fermai nel bel mezzo della strada, aspettandola. Camminai semplicemente, ignorandola, fino a quando le sue dite sottili non strinsero il mio polso, facendomi voltare verso di lei.

«Ti prego... non voglio perderti...» Sussurrò piangendo.

«Mi hai persa nell'esatto istante in cui hai preferito raccontarmi un mucchio di bugie, piuttosto che la verità.» Parlai monocorde, senza sentimento e con freddezza. Mi guardò spaesata, quasi impaurita dal mio distacco così netto.

«Non ti ho mentito, permettimi di spiegarti tutto.» Mi pregò con lo sguardo, tuttavia non ottenne nulla come risposta. «Non ti ho mentito sulla mia persona! Sono pur sempre la ragazza che lavora in azienda con te, quella che ti sveglia presto la mattina perché ha bisogno di parlarti dei suoi tragici problemi d'amore!» Cercò di sorridere, ma la sua fu una smorfia colma di dolore. «Ti ho mostrato la vera me a eccezione del mio nome. Devi perdonarmi, ero terrorizzata. Non volevo che mi riconsegnassi nelle mani dell'uomo che credevo essere mio padre.» Mi spiegò e, per un solo attimo, riuscì a intenerirmi. «Adesso so che non l'avresti mai fatto, ma all'inizio di tutto non potevo fidarmi da te. Ti prego, perdonami.» Aveva concluso, con le lacrime che le bagnavano il viso.

«Qual è il tuo vero nome, Kayla?» Domandai fingendomi impassibile e ingoiando il macigno che si era formato in gola.

«Katherine Ivanov.» Sospirò, speranzosa.

«Bene, Katherine Ivanov. Dimentica tutto quello che abbiamo fatto insieme, poiché, da ora, tu per me rappresenti il nulla assoluto.»

Con te non ho pauraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora