12-We bring you home

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Fissai ancora per qualche istante le stelle e la luna piena, che risplendevano nel cielo cupo e scuro, dandogli uno strano ma piacevole, aspetto, poi mi sollevai in piedi e passai nervosamente le mani sulla mia gonna, spazzando via la polvere.

Un'ondata di vento mi portò a rabbrividire e spostai lo sguardo dal cielo notturno, il quale era riuscito, anche solo per poco, a donarmi un senso di tranquillità e a cancellare i miei pensieri, concentrati sulle ragazze che, di lì a poco, avremmo riportato dalle loro famiglie.

Ognuna di loro aveva imparato a memoria una versione da esporre, poiché, come avevamo previsto, sarebbero state interrogate dagli agenti dell'FBI.

Questi ultimi avrebbero promesso loro di trovare i colpevoli e di arrestarli: tutte stronzate. In realtà, non avrebbero mai portato a termine il compito, perché non sapevano contro chi volevano combattere o forse ne erano a conoscenza, tuttavia preferivano tener acceso quel barlume di speranza, che faceva credere avrebbero portato a termine il loro lavoro.

Non tutti quelli che, per convenzione, si definiscono buoni, però, si avvalevano di questa certezza; alcuni preferivano andare contro i loro stessi principi, solo per permettersi una casa migliore o un weekend con i fiocchi. Questi, preferivano spifferare le informazioni ricevute a noi cattivi, rendendo vano il lavoro dei loro colleghi.

Tuttavia quel loro modo di fare era ottimale anche per i miei fini, allora perché lamentarmi se questo consentiva, a noi cattivi, di essere sempre avanti rispetto a loro? In verità, il mio senso morale, mi portava su, quella che, il mio lavoro, definiva, la strada sbagliata.

Mi risvegliai dalle mie complicate riflessioni quando un'altra folata di vento mi riscosse; sospirai e, a passo lento, lasciai la terrazza, che, per tante volte, era stata il mio rifugio. Arrivai in salone e osservai con minuziosità le persone presenti: ciascuna delle ragazze parlottava silenziosamente, sussurrandosi parole di conforto e di saluto; gli uomini di mio padre, preparavano le armi per un'eventuale emergenza e ripetevano gli ultimi dettagli del piano, che avremmo attuato quella sera; il mio migliore amico chiacchierava con i miei due fratelli e non sembrava preoccupato per il fallimento della nostra impresa.

Io, invece, ero ferma all'entrata del salone, con la pistola infilata nella fondina e il coltello ben nascosto negli stivaletti. Mi guardavo intorno con circospezione e con il cuore che batteva furiosamente nella cassa toracica, a causa dell'ansia che, ormai, da più di un'ora, mi attanagliava le viscere.

«Ehi.» La voce di Kayla mi riportò alla realtà.

«Ciao.» Il mio sguardo vagò all'interno della stanza, controllando ancora una volta che tutto fosse perfetto.

«Sai, non sei brava a nascondere la tua irrequietezza. Sono tutti tranquilli, tranne te, come mai?» Domandò, forse sperando di potermi essere d'aiuto.

«Non lo so.» Ammisi, passandomi una mano sul volto. «Solitamente non sono ansiosa per questo genere di cose, arrivo persino a sentire l'eccitazione crescere dentro di me; eppure questa volta provo una strana sensazione, che cerca di avvertirmi che non tutto andrà bene. Potresti benissimo scambiarmi per una pazza, ma i miei sentori non hanno mai sbagliato.» Ridacchiai nervosamente, massaggiandomi le tempie.

«Ehi.» Mi richiamò, prendendo le mie mani tra le sue e scavando nei miei occhi scuri. Finsi che il suo gesto non mi avesse turbata e la osservai anch'io. «Vedrai che ti sbagli.» Sorrise rassicurandomi.

«Lo spero.» Sospirai frustrata.

«Alexandra.» Mi richiamò la voce quieta di mio fratello Ian.

«Dimmi pure.» Voltai il capo verso di lui.

«Noi siamo pronti, andiamo?» Poggiò un braccio sulla mia spalla.

«Certo, è giunta l'ora. Ci vediamo presto, Kayla.» Salutai la ragazza, prima di allontanarmi leggermente.

«Cosa? No! Vengo anch'io.» Mi raggiunse subito

«Non dire sciocchezze, tu resterai a casa, al sicuro.» Annunciai, mentre camminavo verso la porta d'ingresso.

«Ho detto che vengo anch'io!» Ribatté irritata.

«Non sai neanche usare una pistola...»

Non mi fece finire di parlare; sfilò la pistola dalla tasca del pantalone di mio fratello e sparò contro un vaso di porcellana, colpendolo e facendolo sgretolare in tanti piccoli pezzettini, che si riversarono sul pavimento.

La fissai con la bocca schiusa, mentre lei sorrideva soddisfatta.

«Allora?» Domandò con tono incalzante, incrociando le braccia sotto il seno.

«Bene. Starai in macchina con me e i miei fratelli e, quando avremo finito, mi spiegherai dove hai imparato a sparare.» La avvisai, successivamente aprii la porta d'ingresso e mi avvicinai alla macchina, aprendo lo sportello e accomodandomi sui sedili posteriori, seguita, subito dopo, anche da Ian e da Kayla.

«Che ci fa lei qui? Non voglio dilettanti nelle missioni, lo sai.» Sbottò Caleb, con la voce intrisa di nervosismo.

«Ho già dimostrato di sapermela cavare, quindi chiudi il becco, grazie.» Rispose a tono la ragazza che mi stava a fianco.

«Come osi parlare in questo modo a colui che ti ha salvato la vita.» Sputò di getto, mio fratello.

«Io non devo proprio niente a un cazzone montato!» Sbraitò lei indispettita.

«Chiudete quelle cazzo di bocche, non è il momento per mettersi a litigare, siete grandi, comportatevi da tali.» Li ammonii in fretta, non volevo sentire più neanche una sillaba.

Entrambi si zittirono e Ian accese la radio per contrastare il silenzio teso che era sceso nell'abitacolo.

Voltai lo sguardo verso il finestrino e osservai i palazzi che scorrevano veloci davanti ai miei occhi.

Avevamo concordato che le ragazze sarebbero state lasciate, a gruppi, in piccole strade di New York. Ovviamente alcuni di noi, sarebbero rimasti appostati per controllare che ognuna di loro arrivasse a casa sana e salva. Il nostro piano era di lasciarle nei punti scelti e aspettare che un qualunque passante, stranito dalla situazione, decidesse di contattare le forze dell'ordine, cosicché ognuna sarebbe potuta tornare dalle loro famiglie.

I primi due gruppi sarebbero dovuti essere già nelle loro posizioni, così infilai l'auricolare nell'orecchio, pronta per ricevere informazioni.

«Noi ci siamo.» Parlò Ralf, tramite auricolare.

«Anche noi.» Annunciò John, un altro dei nostri uomini.

«Noi abbiamo appena parcheggiato, le ragazze stanno scendendo, e io sto per andare a posizionarmi.» Spiegai, mentre aprivo lo sportello per scendere dalla macchina.

Salii le scale antincendio di un palazzo e raggiunsi il tetto. Posai il fucile sul muretto che circondava il perimetro e afferrai il binocolo, per osservare meglio la scena. Anche le ragazze giunsero nel punto prestabilito e, come previsto, alcune di loro iniziarono a piangere e a gridare in cerca di aiuto. Io restai ferma, attendendo l'evolversi della situazione.

Un uomo corse incontro alle ragazze e afferrò il suo telefono, sicuramente per chiedere aiuto; infatti, in circa dieci minuti, la zona fu circondata da ambulanze e autovetture della polizia.

Lasciai il mio nascondiglio e, a passo lento e disinvolto, camminai per la strada, evitando in ogni modo di farmi notare. Raggiunsi l'auto, in cui erano seduti i miei fratelli, e m'infilai delicatamente all'interno.

«Fatto, sono tutte al sicuro.» Spiegai, mentre mi stringevo nel cappotto che avevo indosso. Sentii i miei fratelli e la mia amica fare un respiro di sollievo.

Caleb mise in moto senza aggiungere altro e partì dirigendosi in un posto a me ignoto.

«Dove andiamo?» Domandai, inarcando un sopracciglio.

«Dobbiamo festeggiare, giusto?» Ghignò compiaciuto. Ridacchiai anch'io e poggiai la testa sul sedile di pelle.

Chiusi gli occhi e mi godetti la musica trasmessa dalla radio, emettendo un sospiro di sollievo e abbandonandomi al senso di tranquillità, ignorando che da lì a poco, tutti i miei presentimenti sarebbero diventati reali.

Con te non ho pauraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora