The Maze Runner - The Cranks.

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L'acqua gelida scendeva sul mio corpo e dentro di me speravo che, insieme allo sporco, lavasse via anche i miei piensieri e le mie preoccupazioni.
Era passata una settimana da quando avevano attaccato l'accampamento del braccio destro, da quel momento sono stata portata in quella che mi avevano detto essere la Città, su cui torreggiava la base operativa di W.C.K.D, ed era lì che ero stata portata io. Nella mia convalescenza non riuscì a vedere altro se non molti adolescenti, addirittura bambini, sottoposti alle più strazianti cure. Io ero stata accolta all'interno di una stanza, glaciale come poche.
Ogni giorno mi veniva portato cibo e acqua che io rifiutavo categoricamente di ingerire, mentre aldilà della porta intravedevo le guardie che trascinavano i ragazzi per le braccia, pronti a sottoporli a chissà quale trattamento. A me, però, non era mai stato concesso uscire dalla stanza: essa veniva aperta solo alle ore dei pasti, per poi essere richiusa subito dopo avermi consegnato il cibo, e nel caso di visite straordinarie. Poi veniva lasciata chiusa a chiave, come se il pesante cemento armato e le cinque guardie poste fuori da essa non fossero abbastanza per evitare ogni tipo di fuga.
C'era uno specchio posizionato sopra al letto, l'unica cosa che spezzava la monotonia delle pareti bianche: lo avevo rotto dopo due ore che ero arrivata. Mi ci ero specchiata per caso, una volta finita una delle tante crisi di nervi da cui ero investita, notando come le lacrime mi avessero scavato il viso, come le occhiaie scure che avevo sotto gli occhi si fossero ampliate notevolmente e come i capelli, che avevo rischiato di strappare dall'isteria, si erano arruffati e rizzati. Tirai un pugno allo specchio, lasciando un urlo liberatorio, come se colpendo il mio riflesso avessi colpito anche me stessa. Le guardie si erano precipitate nella stanza, strattonandomi lontana dal disastro che avevo fatto e facendo pulire il tutto da un'anziana signora dai capelli grigi. Li avrei potuti usare per togliermi la vita, mi avevano spiegato, e per un attimo pensai che conficcarmeli nelle braccia e poi tagliarmi la pelle mi avrebbe risparmiato chissà quante sofferenze e chissà quanti attacchi di panico e crisi isteriche.
Restai sotto la doccia per molto tempo, questo perché era l'unico momento in cui non dovevo stare ammanettata ad una catena appesa al muro. Mi ero giocata quell'ultimo spicchio di libertà tentando di soffocarmi con il cuscino del letto. Le guardie erano entrate nell'esatto momento in cui cominciavo a sentire il respiro andarsene piano piano, mi avevano afferrata e ammanettata. Il massimo di libertà a cui posso aspirare sono i 30 cm di catena, la quale mi permette di mettermi seduta alla scrivania e scarabocchiare su un diario che hanno lasciato su di essa, nella speranza che collaborassi e scrivessi qualche informazione riguardo ai piani del braccio destro e dei miei compagni. A fine giornata tutto quello che trovavano erano un paio di nomi scritti sparsi per pagine colme di scarabocchi, spesso linee sconnesse e solo poche volte rinvenivano un percorso tipico di un labirinto.

Mi era stata affiancata la professoressa Abby Grant che, a causa delle sue pasticche dimmilaverità, aveva imparato a gestirmi durante la mia breve permanenza nella base posta vicino alla zona bruciata. Veniva a trovarmi ogni giorno tentando di farmi sputare fuori tutto ciò che provavo e, se non fosse stato per le catene, le sarei già saltata al collo.
Lei cerca solo di aiutarti, mi diceva Teresa aldilà della porta.
Dio, quanto la odiavo. Ogni volta che la sentivo sussurrarmi parole di incoraggiamento dietro la porta continuavo ad urlarle quanto avrei voluto ucciderla, che era colpa sua se stavo lentamente impazzendo. Lei, però, non mi rispondeva mai e andava via senza dire niente.

«Hai finito là dentro?» gridò una guardia. La sua voce era ovattata a causa delle maschere che gli facevano indossare.

Mi passai le mani sulla faccia, asciugando via l'acqua «Ho fatto.»
Afferrai i vestiti puliti lasciati sul lavandino e li indossai, avvolgendo i capelli bagnati dentro ad un asciugamano. Mi massaggiai i polsi, ormai rossi e rovinati a causa delle manette e del mio continuo ribellarmi ad esse, e poi uscì dal bagno. La scorta delle guardie allora mi ricondusse nella mia stanza e chiusero con un boato la porta dietro di loro.
Fui lasciata nuovamente sola, in una stanza monotona e cupa – nonostante il colore bianco della vernice – in balia delle mie crisi di nervi e con i 30 cm di catena che giacevano sul pavimento.
E allora alzai gli occhi sul soffitto, sperando che i miei compagni si fossero inventati qualcosa per farla scappare dai loro artigli. Chissà quando mi verranno a prendere, pensai.

Chissà se mi verranno a prendere.


– 𝐬𝐩𝐚𝐳𝐢𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥'𝐚𝐮𝐭𝐫𝐢𝐜𝐞 –
Allora, questo è il capitolo di transizione quindi chiedo già perdono se farà cagare (nel caso potete prendermi a parole oppure lo farò guardandomi allo specchio). Comunque volevo avvisare che per la pubblicazione di questi capitoli ci vorrà un po' di tempo, perché devo inventarmi di sana pianta tutti gli avvenimenti narrati e putroppo non è semplice. In più se aggiungo il fatto che spesso le giornate non sono produttive come vorrei che fossero e la mia fantasia ogni tanto non collabora... diciamo che vi chiedo solo un po' di pazienza.
ʟᴏᴠᴇ ᴜ ɢᴜʏs!

𝗧𝗛𝗘 𝗖𝗥𝗔𝗡𝗞𝗦 ━ 𝖙𝖍𝖊 𝖒𝖆𝖟𝖊 𝖗𝖚𝖓𝖓𝖊𝖗Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora