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Guardai Jeremy sul sedile di fianco al mio intento a giocare con il suo game boy e cercai di trattenere le lacrime, era così assorto nella sua piccola vita, nelle sue emozioni da non accorgersene fortunatamente. Quando dissi a Michael che dovevamo assentarci per qualche giorno non si preoccupò molto, se non del fatto che avremmo dovuto recuperare quei giorni di lavoro, era diverso, forse Frank gli aveva parlato o forse Marie era tornata per riappropriarsene come mi era stato predetto.

In ogni caso io avevo il cuore a pezzi ma non potevo mostrarlo, dovevo tornare alla realtà e tornare in me con la velocità di un volo di linea di cinque ore per New York.

-Davvero conoscerò mio papà?- disse Jeremy entusiasta.

-Lo hai già visto in realtà piccolo- gli accarezzai la testa -è possibile che ti chieda di passare del tempo con lui Jer- mi guardò sorridendo -sarai tu a decidere e a parlare con gli psicologi ok? Io non ti dirò ciò che vorrei tu dicessi o facessi, voglio che tu sia il più sincero possibile, ma sappi che non ti ho mai negato di vederlo per mio volere, o almeno, è lui che ha voluto questo colloquio per conoscerti e mostrarsi una volta per tutte. Voglio la tua felicità e che tu sappia che vieni prima della mia. Ti voglio bene piccolo, te ne ho sempre voluto contrariamente da ciò che ho sempre dimostrato, ma avevo paura. Paura di questo giorno e ti ho precluso tanto nonostante sia arrivato alla fine- mi coprii il viso con le mani, stavo per crollare ma Jeremy me le tolse e mi abbracciò.

-Ti voglio bene anch'io mamma- disse in un sussurro.

Arrivammo a New York alle sei del mattino, la città si stava svegliando e l'odore di caffè e pancake ci fece fermare in un piccolo bar dell aereoporto, i viaggiatori del mattino erano tutti assorti nei loro pensieri, c'erano uomini di affari con le loro 24 ore che a passo svelto si dirigevano verso gli imbarchi, c'erano coppie con delle ghirlande floreali al collo che si baciavano diretti in chissà quale posto esotico, lontano da casa, lontano dal traffico caotico della città, lontano dai rumori che iniziavano a snervarmi. E c'eravamo io e mio figlio a parlare davanti a una tazza fumante di latte e un pancake agli smarties, dovevo passare il maggior tempo possibile con lui, non sapevo cosa sarebbe successo di lì a poco.

Avevamo appuntamento dagli avvocati alle dieci, David ci stava aspettando fuori dal terminal davanti ad un taxi, guardò l'orologio spazientito, non era di buon umore.

-Siete in ritardo- lo guardai con aria di scuse mentre Jeremy lo abbracciava.

-Ciao fratellino- gli disse confondendolo.

-Ma sono Jeremy David- disse lui tirandogli un pugno sulla gamba, Dave mi guardò infuriato, e lui come lo sapeva?

-Mi spiace- dissi in un fil di voce.

-Quando l'ho saputo non potevo crederci Lindsay, perché non me lo hai detto. Dopo tutto questo tempo... come hai potuto stare con me nonostante tutto quello che ti ha fatto!?- pensai che Dean gli avesse detto che lo avevo sedotto o quant'altro eppure Dave sapeva la verità ed era impossibile che la verità provenisse da suo padre, gli chiesi spiegazioni ma non mi ascoltò, guardò fuori dal finestrino assorto nei suoi pensieri per tutto il viaggio.

Quando arrivammo allo studio Dean era già li con una borsa piena di giocattoli, partivo svantaggiata, avrei dovuto immaginare che avrebbe giocato sporco, si presentò a mio figlio come il padre, Jeremy non sembrò sorpreso ma solo felice di aver trovato una figura a cui dare un senso, David non lo salutò anzi, rimase fuori mentre i legali ci spiegarono come dovevamo muoverci, uscimmo dalla stanza quando gli psicologi vollero parlare con mio figlio.

-Lindsay, sei sempre più bella- mi disse Dean osservandomi attentamente mentre David uscì dalla stanza sbattendo la porta.

-Che gli hai detto per farmi odiare così?- mi accarezzò il viso.

Parlami di teDove le storie prendono vita. Scoprilo ora