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Entrai in aeroporto completamente spaesata, osservai a lungo il mio biglietto aereo e cercai di orientarmi in tutto quel turbinio di emozioni che non volevano andarsene. Ricominciai a respirare normalmente solo quando arrivai al gate, ero in anticipo ed il tempo mi sembrò scorrere lentamente, provai delle fitte profonde allo stomaco, cercai così di respirare e concentrarmi sul contorno che mi attorniava. L'aeroporto era particolarmente vuoto e silenzioso quella mattina, c'erano pochissimi passeggeri, vidi dei ragazzi con i propri zainetti seduti sulle seggiole di un bar, con le loro birre in mano e l'allegria che li attorniava, brindarono più volte al viaggio entusiasmante che li avrebbe aspettati. Vidi una signora delle pulizie trascinare stanca il suo carrello e con sé la poca voglia di stare in quel posto, scorsi la tristezza nei suoi occhi, chissà perché, mi chiesi mentre un'altra fitta mi fece boccheggiare, non capivo da dove provenisse tutto quel dolore e neanche me lo domandai, dovevo solo rilassarmi e non pensare.

Strinsi forte la pancia e mi raggomitolai sulla sedia cercando di distrarmi nuovamente, mi concentrai sulle luci artificiali nella stanza, sulla voce poco chiara della donna all'altoparlante, sul suo sguardo triste e deluso di me, scossi il viso cercando di eliminare quei pensieri.

L'ora passata in quella sala fu infinita, solo quando salii sull'aereo riuscii a tranquillizzarmi, forse grazie al sonnifero che presi prima di imbarcarmi, caddi in un profondo stato di torpore in cui non sentii più nulla, mi svegliai solo quando una hostess mi chiamò insistentemente per informarmi dell'arrivo a New York e stordita mi alzai ed uscii dall'aereo.

Quando uscii dal JFK di New York lo vidi nell'aerea riservata ai taxi con la sua mascella squadrata e il suo sguardo più gelido. David mi stava aspettando, era livido in viso e quasi non mi salutò, tutte le buone intenzioni che aveva promesso la settimana prima erano svanite nel nulla ma non me ne preoccupai, entrammo in macchina in silenzio, c'era un odore molto forte e i crampi allo stomaco e il mal di schiena stavano diventando intollerabili.

-Ciao Dave- dissi stringendo forte la pancia.

-Hai combinato un bel casino... tuo padre è adirato... ha dovuto pubblicare l'articolo a tuo nome per via della tua mancanza di professionalità. Lo hai deluso molto- disse con tono gelido mentre percepii la rabbia salire dentro di me -Te lo sei scopata?- urlò ad un certo punto spaventandomi.

-Non so di chi tu stia parlando- dissi, provai ancora quella forte sensazione di malessere e vuoto -non mi sento bene David, portami all'ospedale per favore- dissi piegandomi dal dolore.

-Non fingere Lindsay, non ho nessuna intenzione di tornare indietro, quindi fatti passare i tuoi sensi di colpa e sii sincera, te lo sei scopata o no?- urlò nuovamente, l'autista si girò verso di me e mi diede un'occhiataccia, un'altra fitta, quella sensazione probabilmente era dovuta alla giornata passata.

-Smettila Dave, te ne prego-

-Tuo padre vuole parlarti-

-Non portarmi da lui ora per favore... portami al pronto soccorso non sto bene-

-Pfff... ma per favore, devi andarci ha espresso il desiderio di vederti- disse lasciandomi davanti all'edificio, salii le scale a fatica, mio padre mi stava aspettando nel suo ufficio, il dolore non mi avrebbe impedito di fargliela pagare, mi feci forza e attraversai il corridoio a grandi passi.

Provai quella sensazione sgradevole di quando si ha l'attenzione su di sé, senza volerla o averne espresso il desiderio, ma era così, avevo gli occhi dei miei colleghi puntati addosso e il silenzio improvviso quando entrai in ufficio confermò la mia sensazione.

Ad ogni passo sentii la rabbia e frustrazione sovrastare il dolore che provavo, aveva rovinato tutto, ancora e ancora e ancora, i sentimenti che avevo dovuto nascondere per tutta la vita, il risentimento per come mi aveva cresciuta, per avermi giocata a poker e persa, una perdita che mi era costata l'infanzia, sapevo bene cosa avrei dovuto dire o fare.

-Tu!- urlai senza chiudermi la porta alle spalle ma lui mi fermò ancor prima che potessi aggredirlo.

-Lindsay cara, ben tornata. Prima che tu possa dire qualunque cosa sappi che il primo articolo ci ha fatto guadagnare fior fior...-

-Non me ne frega un cazzo di quanto hai guadagnato! Tu mi hai rovinato la vita, da quando sono nata hai rovinato ogni momento bello, ogni ricordo che ho della mia infanzia! Non avevi il diritto di usare quelle parole! Non avevi il diritto di scrivere quelle menzogne circondandomi di merda! Quello non è il mio articolo, mi hai usata per raggiungere il tuo scopo! Sei un fallito Carter! Sei solo un frustrato che non ha mai accettato il fatto che la moglie lo abbia lasciato, ti sei mai chiesto il motivo? È perché sei peggio di una bestia!- mi guardò senza battere ciglio con il suo sorrisetto da circostanza e disse una sola frase per annientarmi.

-Sei licenziata Cooper- ero fuori di me, la rabbia che provai iniziò a trasformarsi la percepii in ogni parte di me e ne prese il sopravvento, incontrollabile, inarrestabile. Presi la mia foto dalla sua scrivania e la scaraventai a terra uscendo come una furia tra gli sguardi indagatori dei miei colleghi, scesi le scale velocemente e rientrai in macchina stringendo forte la pancia, era finita, era andato tutto perso. Arrivati a casa salimmo in ascensore in silenzio, David era arrabbiato così presi un un antidolorifico e un sonnifero e andai a letto non dovevo pensare. Il giorno dopo mi alzai ancora dolorante, al TG non facevano altro che parlare del mio articolo, i legali di Michael pretendevano una smentita da parte mia o un di scostamento da parte del giornale supponendo non fossi in me, alcuni notiziari dicevano che ero sotto effetto di psicofarmaci per via di una forte depressione, John e Adam dovevano aver parlato per difendere Michael, pensai a Jeremy e vidi la possibilità di riaverlo sfumare davanti ai miei occhi. Mio padre comunicò il mio licenziamento alla stampa confermando che facevo uso di psicofarmaci, alcuni raccontarono del mio agguato in studio descrivendomi come una pazza psicopatica, i miei colleghi dovevano aver parlato, spensi la tv e mi ributtai a letto rimpiangendo di aver accettato quel lavoro.

Ma la cosa peggiore fu che le fitte aumentarono e il mal di schiena divenne insostenibile, chiamai un'ambulanza tre giorni dopo aver lasciato un sogno per entrare dentro il vortice di un incubo.

Entrai in un loop fatto di momenti, di lenti risvegli, di palpebre pesanti, di odori, di parole appena sentite di medici e luci, ma ciò che non dimenticai in quel viaggio senza senso furono le parole dette a mio padre.

-...sua figlia ha perso il bambino, ci dispiace. Erano questi i dolori che provava, non dev'essere stato facile, deve aver sofferto molto- il buio mi invase.  

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