34. Un'altra vittima (parte 1)

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Non mi sembra vero, ma da oggi non sarò più un'apprendista. Un singolo esame mi separa dalla realizzazione del mio sogno.

Non so cosa maestro Debus mi chiederà di fare, però sono certa di non poter fallire: divinare mi è davvero semplice e ancora non mi spiego perché continuano a volermi mettere alla prova.

Devo trattenermi dal ridere entusiasta, entrando nello studio del maestro.

Poche ore e potrò ricamare la rosa sulla mia tunica, poche ore e diventerò a tutti gli effetti un'incantatrice riconosciuta. L'accademia di Teegate ormai mi sta stretta: io voglio andare a Lebrook, voglio che il re riconosca le mie capacità e mi tenga al castello. So di poterlo aiutare in modo egregio: con me a lavorare per lui, non dovrà più preoccuparsi di potenziali minacce. Lo ha detto anche Alerdhil, no? Era da anni che non vedeva una divinatrice tanto capace e se lo afferma il sommo cultista di Varodil, deve essere vero per forza.

Modestamente, credo che il mio livello non verrà mai eguagliato.

Maestro Debus è seduto composto dietro alla scrivania di legno scuro stracolma di tomi e pergamene lì da chissà quanto; non è mai stato un tipo ordinato, infatti mi infastidisce in modo smisurato osservare quelle montagne di libri accatastati sugli scaffali appesi alle pareti di pietra grigia. Ce ne sono anche a terra, tra la polvere che nessuno può pulire perché lui non vuole.

Sarà la vecchiaia a renderlo così strano e scorbutico, forse. Girano voci sul fatto che abbia predetto la propria morte e quindi non vuole che il suo casino venga messo in ordine; io non ci trovo un senso, ma neanche m'interessa.

Non appena chiudo la porta, l'odore di cera e carta antica mi riempie le narici; le pesanti tende nere alla finestra oscurano la luce del giorno e c'è solo un candelabro a sei bracci a illuminare in modo alquanto sinistro il viso rugoso dell'uomo, la lunga barba bianca e il cranio spelacchiato. Mi fissa con gli occhi scuri semi nascosti dalle palpebre cadenti e quell'espressione di perenne disagio, come se il vivere, per lui, fosse un peso incommensurabile.

«Zellania Caney, siete pronta?»

Oh, stupido vecchio, io sono nata pronta!

Porto le mani sui fianchi e annuisco, mordendomi le labbra tra loro per contenere quei pensieri e provare a non far trasparire l'esaltazione. Rimango in piedi visto che il maestro non mi ha chiesto di sedermi e in effetti non saprei dove: non ci sono posti per farlo.

L'uomo tossisce, ma la cosa non lo aiuta a rendere meno roca e traballante la voce.

«Oggi ci apprestiamo all'ultima prova: se la supererete, sarete riconosciuta come incantatrice del regno e potrete esercitare la professione in tutta Rosendale. Vi siete dimostrata abile nell'uso delle illusioni, ma avete scelto la divinazione come campo primario e perciò è su di essa che oggi vi testerò.»

Parla con lentezza e vorrei potergli mettere un po' di sano pepe al culo. Non ho bisogno che mi ripeta quello che già so, cazzo!

Resta comodo sulla sedia imbottita e poggia i gomiti sulla scrivania, lisciandosi la barba con gesti misurati.

Lo odio. Vuole farmi innervosire?

Ci sta riuscendo benissimo.

«Conosco la vostra ambizione, giovane apprendista, e vedo come scalpitate. La pazienza è una virtù che dovreste imparare a coltivare.»

Basta, non resisto più. Il piede destro non smette di tamburellare sul pavimento ruvido.

«Sono qui per un esame, maestro. Il resto è superfluo.»

Il Canto della Rosa e del DragoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora