15. Prigioniero (parte 2)

163 34 215
                                    

A nessuno era permesso andare da lui e Jaira resistette alla tentazione di montare un gran casino per due notti e un giorno, ma alla seconda mattina non ce la fece più.

Avevano portato Allan nella stiva dei cavalli e lei, il giorno prima, aveva passato ore sul ponte a fissare la grata in legno della grossa botola che fungeva da apertura per l'esterno. Ci avevano messo un lucchetto ed era consentito solo ai cultisti scendere sottocoperta per dar da mangiare a lui, alle bestie e per pulire. Ogni tanto ci aveva camminato sopra, nella speranza di poter scorgere qualcosa dai fori del reticolo, ma non importava come i raggi solari colpissero l'interno del magazzino: Jaira non era riuscita a scorgere nulla se non il pavimento di assi di legno.

C'era soltanto legno in quella dannatissima nave!

Si alzò dall'amaca prima dell'alba e scorgere quella accanto a lei vuota le strinse lo stomaco. In qualche modo, era certa che ciò che era successo ad Allan fosse colpa sua anche se non riusciva a ricordare quasi nulla di quel giorno maledetto.

Aveva bisogno di fare chiarezza, aveva bisogno di vederlo.

Dopo essersi messa la tunica, aver raccattato i suoi vecchi vestiti e lo zaino del bardo, Jaira si piantò davanti alla cabina del sommo cultista e sbatté un pugno contro alla porta finché non ottenne di essere ascoltata.

Era così presto che per i ponti si aggirava solo l'equipaggio indispensabile per controllare che la nave procedesse nel giusto modo, ma non le sarebbe importato dare spettacolo anche davanti a tutta la ciurma messa assieme.

Era stufa.

Dopo qualche tira e molla, il vecchio le concesse di andare da Allan, forse per pietà o perché lei aveva minacciato di infastidirlo da lì fino alla fine del viaggio.

Un cultista incappucciato aprì la botola e fece per recuperare la passerella mobile che usavano di solito per portare giù i cavalli, ma Jaira lo guardò male e sfruttò la scala di corde intrecciate lì appesa per scendere; senza l'armatura, la sua agilità era invidiabile nonostante la stazza.

Il cultista la chiuse dentro mentre ancora stava scendendo.

«Torneremo a prendervi nel pomeriggio, quando porteremo il pranzo al prigioniero.»

Jaira si morse la lingua per tenere i commenti per sé. Quando i piedi toccarono il pavimento della stiva, cosparso di paglia secca, lei si guardò intorno per trovare Allan il più in fretta possibile. L'odore di sterco era percettibile e fastidioso, sebbene gli oblò presenti in un lato dello scafo fossero aperti; era evidente fossero troppo piccoli per garantire un corretto ricircolo dell'aria, data la presenza degli animali. Non era un posto adeguato dove far stare una persona e scoprirlo la irritò a dismisura.

Accanto al lato lungo interno vi era una mezza dozzina di cavalli sospesi con delle cinghie grazie a uno spesso telo sotto alla pancia e circondati da un'impalcatura di legno in modo che restassero sempre eretti e che le zampe, opportunamente legate a due a due, non toccassero il suolo. Tra loro, Jaira riconobbe Gyles che nitrì nello scorgerla, come a rimproverarla di ciò che gli stava facendo passare. Povera bestia, però era robusto e abituato ai viaggi per mare, ormai; l'avrebbe perdonata di certo.

Un gran numero di casse, sacchi di iuta e botti erano impilati lungo il lato corto alla sua destra, mentre a sinistra, nell'angolo tra la parete dello scafo e il secondo lato corto, c'era una gabbia di metallo abbastanza grande per farci stare tre o quattro persone.

Da sotto alla grata d'ingresso, la donna non riusciva a scorgere molto perché quell'intera parte di stiva era in penombra, troppo lontana per essere raggiunta dalla luce del mattino che filtrava sopra di lei e illuminata dai flebili raggi provenienti dalle piccole finestre circolari molto distanziate tra loro.

Il Canto della Rosa e del DragoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora