8. Nella casa di Ilimroth

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I pesi a gravare sulle spalle di Jaira erano diventati tre e uno di essi era di gran lunga più ingombrante degli altri.

Con le mani impegnate a far arrostire il tacchino selvatico che avevano catturato lungo la via, la mente della guerriera era libera di vagare nei meandri delle preoccupazioni. L'aroma della carne riempiva gli spazi sovrastando gli odori della natura e dei loro corpi; Allan si portava dietro una grande quantità di sapone in quella sua borsa senza fondo, ma le lunghe cavalcate non risparmiavano nessuno.

Stava tramontando il sole sul quinto giorno di cammino verso sud e si erano accampati vicino al fiume, a ridosso di una strada poco trafficata tra i boschetti di conifere che sorgevano nei territori della capitale. In un paio di giorni a cavallo sarebbero giunti a Neley.

Il fuoco da campo scoppiettava davanti a lei e il cielo sulle loro teste aveva già abbracciato una certa oscurità, mentre dietro le montagne gli ultimi chiarori si tingevano dei colori delle fiamme. L'attenzione di Jaira, però, non era posta verso l'alto; Eatiel era seduta dall'altra parte del falò e sorrideva, voltata di profilo a osservare Allan e il principe che si sfidavano a chi riusciva a far fluttuare più in alto dei piccoli sassi utilizzando incantesimi molto semplici, a loro dire.

Ridevano, quei due idioti.

Cos'avevano da divertirsi? Non avevano fatto altro che punzecchiarsi per tutto il viaggio e Jaira non riusciva a capire se disquisivano d'inutilità perché erano degli stupidi incoscienti o perché avevano paura di pensare a cosa il futuro aveva in serbo per loro. Non si sarebbe mai aspettata che un erede al trono si comportasse in modo così sciolto e disinvolto con degli sconosciuti, quasi fosse un loro pari.

Jaira arrossì e si focalizzò sul tacchino, ripensando alla sua Lebrook. Non avrebbe dovuto stupirsi, in effetti: i reali erano solo persone, in fondo, e lei lo sapeva bene.

La sua vecchia vita le mancava tanto da stringerle il petto, da bruciarle la gola.

Lei non avrebbe più potuto essere felice.

«Jaira, che vi succede? State piangendo.»

Eatiel la riportò alla realtà e la guerriera trattenne il fiato nel vedere i suoi lineamenti corrucciati. Si affrettò ad asciugarsi gli occhi col dorso di una mano e scosse la testa.

«No, che dici? È il calore, la... la fuliggine.»

Incapace di sostenere quel viso fin troppo comprensivo, Jaira tolse lo spiedo dal fuoco e si concentrò sul porzionare la cena tra i piatti di terracotta, con volto truce e labbra serrate. L'elfa, però, non sembrava volerla lasciare in pace visto che le si avvicinò.

«Se avessi avuto una scelta, non vi avrei mai trascinata in questo viaggio. Vedo come state soffrendo.»

Le parlò a mezza voce, così lieve e addolorata da non riuscire a sovrastare i litigi goliardici dei due uomini poco distanti.

Jaira si passò la lingua sui denti e sospirò. Come dirle che non era solo a causa delle ingenti taglie sulle loro teste che il suo stato d'animo era cupo? Lo avevano visto in uno dei primi villaggi contadini che avevano attraversato: cinquecento Zuli d'oro, vivi o morti, per ognuno di loro tre. Il principe, invece, non era contemplato.

La gente li aveva guardati malissimo e loro erano dovuti fuggire a gambe levate, scegliendo, da quel momento in poi, strade quanto più deserte e secondarie. Dovevano lasciare il regno, ma non avevano potuto farlo dal porto di Bawic e di certo non sarebbe stato saggio mettere piede a Tareah. Neley, quindi, era sembrata la città più adatta, visto che dava sul Mar Mezzo e ogni giorno ci passavano centinaia di mercanti e viaggiatori di ogni sorta.

Eatiel le posò una mano sulla schiena e Jaira s'irrigidì, colta da brividi pungenti che da quel punto si propagarono fino ad arrivarle dietro le orecchie. I loro sguardi s'incrociarono e, per l'ennesima volta, la guerriera annegò nell'oceano azzurro contenuto nelle iridi dell'elfa. Erano così simili a quelle di lei...

Il Canto della Rosa e del DragoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora