Stella (Quando lui l'ha cambiata)

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Lascio le luci e il rumore della città alle mie spalle. È notte fonda, come ogni volta che ho il turno di chiusura al bar.

Piove a dirotto, e i leggeri colpi d'aria spingono le gocce d'acqua a inumidirmi le mani che tengo strette sul manico dell'ombrello.

Esco dal sottopasso che divide il centro di Crimson Hollow dal mio piccolo quartiere, e il silenzio mi investe con violenza. Resta solo il suono dello sbattere continuo e ritmato della pioggia sul telo di plastica che mi protegge, i miei passi che colpiscono l'asfalto bagnato e il fiato corto per la stanchezza.

Mi incammino lungo la strada deserta, illuminata da alcuni lampioni troppo distanti gli uni dagli altri, che lasciano metri e metri di tragitto completamente al buio. Campi incolti e zuppi d'acqua mi osservano lungo il mio tragitto. Non c'è nessuno oltre a me: non in questa strada; non all'una di notte. Solo l'odore di asfalto bagnato, il cielo nero, la natura annegata.

Un colpo d'aria mi sposta di lato l'ombrello; aumento la presa sul manico perché non voli via. Un brivido mi corre lungo la schiena, insinuandosi sotto la felpa grigia e provocandomi la pelle d'oca.

Faccio un respiro profondo.

Sono quasi a metà strada.

Allungo il passo per raggiungere al più presto la fine della via deserta, e finisco dentro a una pozzanghera.

«Cavolo» sussurro fermandomi di colpo.

L'acqua mi entra all'instante nelle scarpe; i calzini si inzuppano rapidamente e devo stare attenta a non scivolare sulla suola.

Raggiungo la fine della 17th Street che si divide in un bivio. Nonostante l'acqua fredda e i piedi bagnati, dentro alla felpa sto sudando dall'ansia. Prendo la biforcazione a destra e mi affretto ancora un po' con il fiato sempre più affannato.

Ci sei quasi. Ci sei quasi. Ci sei quasi.

Il mantra che ripeto ogni notte quando perdo l'autobus e sono obbligata a fare quel maledetto e spaventoso tragitto a piedi.

Ancora qualche passo frettoloso e raggiungo il parchetto abbandonato della Green Avenue. Ora mi dividono solo trecento metri dalla strada principale un po' più illuminata.

Trecento metri mi dividono da casa.

La pioggia colpisce con violenza il dondolo di metallo alla mia destra, provocando rumori acuti che mi gelano il sangue. Il vento fa oscillare l'altalena facendola cigolare con regolarità insistente.

Deglutisco a fatica e sposto lo sguardo sul campo d'erba lasciato incolto. Un unico lampione al centro del parchetto sfarfalla una luce giallognola. La notte divora tutto quello che ha alle sue spalle, e anche alle mie, dando spazio all'immaginazione.

Scuoto la testa; anche i capelli sono ormai umidi e pesanti. Alzo leggermente l'ombrello per vedere dove mettere i piedi e riprendo il tragitto.

Un solo passo; un solo respiro, e noto una figura a cento metri da me. Una figura nera, alta, grossa. Sembra un uomo possente, enorme, in piedi, sotto alla pioggia.

Mi inchiodo a terra.

L'uomo ciondola, come se danzasse una specie di lento troppo elegante e dolce che va in contrasto con tutta quella situazione. Si sposta a destra, qualche movimento a sinistra.

Resto a guardarlo immobile.

Forse è ubriaco.

Con un gesto deciso e rapido ruota di lato, e scopro che la figura non è quella di un uomo: sono due, uno di fronte all'altro, tanto vicini da venire risucchiati dalla stessa ombra.

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