18. Stella

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Cammino nella via ormai deserta dei negozi. Ho appena chiuso il bar e, strusciando i piedi a terra, mi dirigo verso la fermata dell'autobus.

È strano come la stessa strada che quella mattina era un teatro di sangue e urla, è ora così silenziosa e vuota.

Sono l'ultima ad andare via. Come promesso, Timothy mi ha fatto fare chiusura anche per quest'anno, e mi godo il buio della notte, illuminato dai pochi lampioni arancioni lungo la strada.

Appoggio a fatica il piede destro; l'anca è ancora molto dolorante, e ogni volta che scarico un po' di più il peso, fa fatica a reggermi. I muscoli della schiena sono contratti e le braccia mi tremano per lo sforzo fatto per pulire tutta la vetrata.

«Che giornata» sussurro.

Guardo l'orario sullo schermo del cellulare: 23:46.

Ho ancora un ultimo quarto d'ora in cui devo tenermi occupata. Quindici minuti in cui non posso lasciar volare il pensiero a lei, o sarei crollata. Domani. Domani ci avrei pensato, lo avrei fatto in modo diverso. Non avrei pianto.

Raggiungo la fermata del bus, ormai vuota. L'ultimo è passato da un pezzo. Nel proseguire la strada, noto il mio riflesso sulla vetrina di un edificio.

Sono in condizioni davvero pietose.

Le punte dei capelli sono di un rosa marcio a causa del sangue che ho provato a togliere frettolosamente, ma che mi è rimasto incrostato. È stato ancora più inutile provare a farlo con i vestiti.

Non vedo l'ora di tornare a casa e buttarmi sotto alla doccia.

Zoppico fino al sottopasso che divide il centro città con la zona dove vivo, e con estrema fatica e dolore, risalgo mettendo piede nella 17th St.

Corruccio la fronte e stringo i denti. Mi devo fermare qualche secondo per riprendere fiato e mettere a tacere il bruciore all'anca. Gli occhi mi pizzicano e la nausea mi serra la bocca dello stomaco, ma dopo un paio di respiri profondi, mi rimetto con la schiena dritta.

«Forza.»

Deglutisco e riprendo il cammino.

Dopo un paio di passi, il cellulare squilla e sono certa di chi è. Mi scappa un sorriso e scuoto la testa.

Timothy può essere davvero assillante quando si impunta.

«Che c'è adesso?» Rispondo con un sorriso sulle labbra.

«Stella, tesoro. Sono la mamma.»

Allontano il cellulare dal viso e controllo lo schermo.

«Cavolo» sussurro leggendo il suo nome. Riavvicino la cornetta all'orecchia. «Dimmi.»

Non c'è più traccia del sorriso, men che meno della spensieratezza che la chiamata di Timothy mi avrebbe dato, nonostante mentissi prendendolo in giro e definendolo "mamma chioccia".

«Come stai?»

La sua domanda mi spiazza. Il suo tono di voce lo fa.

Mamma sembra triste, malinconica, come se improvvisamente fosse stata investita da un brutto ricordo.

Non ho memoria dell'ultima volta che mi ha chiesto come stavo in questo modo. Sembra sincera. Sembra... sembra una madre. La mia.

L'anniversario della morte di nonna. Lo penso subito.

Se lo ricorda.

Mi basta questo per sentire gli occhi pizzicare e la gola chiudersi. Improvvisamente tutta la fatica e le cattiverie vissute durante la giornata, tornano a galla e mi fanno tremare le ginocchia. Le ricaccio giù, in fondo alla gola. Le metto a tacere e chiudo gli occhi perché non versino neanche una lacrima.

«Mamma» sussurro tirando su con il naso. «Sono felice che hai chiamato.»

Sorrido. Dopo tanto tempo sorrido parlando con lei.

«Sono felice anche io.»

Continuo a camminare lungo la strada buia, prendo la biforcazione della Green Avenue, e anche l'anca sembra darmi meno problemi.

«Tu e papà-»

«Io e papà avremmo bisogno del tuo aiuto» mi interrompe facendo anche rallentare i miei passi. «Sarebbe un problema per te darci duecento dollari? Mi dicevi che lavori, no?»

Mi fermo del tutto.

La mano che stringe il cellulare vicino al viso, trema.

«Sai, io e tuo padre non ce la stiamo passando troppo bene.»

Soldi. Soldi. Soldi. Sempre e solo soldi.

«Verso fine mese è il giorno di paga, se non ricordo male. Quindi ci chiedevamo se avresti potuto-»

Riaggancio senza lasciarla finire di parlare.

Fine mese.

Per lei non è neanche il 25 di Ottobre, ma fine mese. La fine di un mese qualsiasi.

Il cellulare vibra tra le mie mani. Questa volta leggo il nome di mia madre campeggiare nello schermo.

Le lacrime mi stringono la gola e lottano per scendere copiose dai miei occhi. Blocco lo schermo e riprendo a camminare in modo rapido. Non importa l'anca che brucia dal dolore, i polmoni che faticano a trovare l'aria e ogni muscolo del mio corpo che non ce la fa più a fare un solo passo. Non ce la fa più a sopportare tutto questo peso.

Cammino e il cellulare si illumina ancora e ancora una volta.

Vorrei lanciarlo in mezzo ai campi, lasciarlo sull'asfalto e aspettare che una macchina lo colpisca in pieno. Almeno non mi avrebbero più chiamata, io non avrei stupidamente risposto.

«Non ce la faccio più» sussurro con le lacrime agli occhi.

Non ce la faccio davvero più.

Allungo il passo e sento le ombre dei miei incubi che mi rincorrono con ancora più fretta, pronte a divorarmi, ad atterrarmi, a uccidermi.

Alzo lo sguardo verso casa, e ho un'allucinazione.

Sì. Non può essere diversamente.

Di fronte al cancello di casa mia c'è Damon con lo sguardo basso, come il mio. L'espressione sofferente, come la mia.

Mi fermo a qualche decina di metri da lì, per paura che con un solo passo la sua visione sarebbe sfumata nell'aria. Non indossa i soliti abiti: ha una felpa grigia al posto della camicia bianca, ma le mani le tiene sempre dentro le tasche dei pantaloni della tuta dello stesso colore, mentre i capelli neri gli ricadono davanti al viso.

Sono ferma immobile, eppure lui percepisce la mia presenza e alza lo sguardo; i suoi occhi scuri incontrarono i miei e lo capisco. No, non lo sto sognando.

Una lacrima mi scivola lungo la guancia. Tutti gli sforzi fatti per non piangere non hanno più importanza. Non con lui. Gli incubi che mi strozzano la gola risalgono, ma non ho più forza e neanche voglia di fermarli.

Damon allarga le braccia e mi aspetta.

Chiudo gli occhi e sento tutto: il dolore all'anca, il tremore ai muscoli, la mancanza di nonna, la rabbia verso i miei genitori. La voglia di scomparire una volta per tutte. Ma quando li riapro vedo soltanto lui.

Le lacrime mi rigano il viso e faccio un passo in avanti, poi un secondo e un terzo e mi affretto a raggiungerlo fino ad andare a sbattere contro il suo petto duro e caldo.

Lo stringo forte attorno ai fianchi e nascondo il viso sulla sua felpa. Sento il suo calore, il profumo di casa e il battito del suo cuore che accelera a ogni mio singhiozzo.

Mi accarezza con dolcezza la schiena, poi risale sui capelli; mi avvolge tra le sue braccia facendomi sentire al sicuro e protetta da ogni dolore.

Non dice nulla. Non fa domande, non mi chiede che cosa mi succede o perché a ventitré anni sto piangendo come una bambina sul petto di qualcuno che, in fondo, conosco appena. No, Damon posa la sua guancia sulla mia fronte, mi stringe a lui senza pretendere nulla. Resta semplicemente qui; con me. Come se fosse la cosa più normale di sempre.

Questo è il quarto, Damon.

Ora non ti lascio più andare.

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