6. Damon

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Undici di mattina. Il Genie aprirà a breve, ne approfitto per godermi la calma e il silenzio che avvolge il mio casinò.

Esco dall'ascensore e mi incammino verso la sala slot. Apro anche il secondo bottone della camicia bianca, questa mattina mi sento soffocare.

Calpesto la moquette blu scuro che, sotto le luci accese, mostra alcune piccole fantasie dorate. Non c'è più alcuna atmosfera attorno alle slot machines: le tende scure sono tirate e lasciano entrare la luce dalla stanza principale; il via vai di gente che pulisce e riordina, rende l'ambiente confusionario, e non c'è musica a eccitare i presenti.

Mi soffermo a guardare un gruppo di tecnici che mettono mano a due macchinette; incrocio le braccia al petto.

«La quattro funziona adesso?» chiedo.

Adem, vicino ai tecnici, controlla la situazione con attenzione. Dopo aver dato un ultimo sguardo, si allontana da loro e mi raggiunge.

«Hanno sistemato la quattro e stanno bloccando la uno.»

Annuisco.

«Quindi stasera ci aspetta una grande vincita.»

«Sì-signore.»

Grande vincita vuol dire soprattutto gran casino. Sento già le tempie stridere dal dolore.

Sospiro e mi incammino verso la sala principale.

I croupier, già impeccabili nelle loro camicie bianche e gilet neri, stanno sistemano i tavoli per l'apertura. Mi salutano chinando il capo, e riprendono subito il lavoro.

Supero la roulette e alcuni tavoli da blackjack e raggiungo il bancone del bar. Mi lascio cadere sulla sedia rialzata e, senza chiedere nulla, il barman mi allunga un bicchiere di rum; lo afferro e lo faccio roteare lentamente per sentire il rumore del ghiaccio che sbatte contro il vetro.

Non dormo da settimane. Non dormo da quella notte, e ogni incubo ha il suo volto e la sua voce. Non è servito a nulla farla controllare, continuo a pensarci. Continuo a pensarla, come una cosa che ho dimenticato e che mi sforzo con ogni cellula del mio corpo a ricordare. Ma non ricordo, non riesco a grattarmi quel prurito, a metterlo a tacere.

Sì, ho rivisto me stesso attraverso i suoi occhi. Ma l'ho aiutata. L'ho salvata. E allora perché non mi lascia andare?

«Il tuo debito è estinto, eh?»

Xander mi raggiunge dalle spalle e si appoggia con la schiena sul bancone del bar giusto accanto a me.

Chiudo gli occhi e sospiro.

«Se sei venuto a sparare stronzate, aspetta almeno che finisca di bere.»

Faccio un sorso di rum e lo sento bruciarmi in gola.

«Stronzate!» Sorride. «Due settimane di debito estinto è una stronzata!»

Alzo lo sguardo verso il barman, gli faccio cenno di andare e si dilegua in pochi secondi. Scolo il resto del rum che questa volta non si limita a bruciarmi la gola ma anche lo stomaco; sposto lo sguardo verso Xander e riduco gli occhi a fessura.

«Vai al sodo, non ho proprio voglia di starti dietro oggi» sospiro.

Xander si scosta dal bancone per girarsi e guardarmi meglio. Nel suo solito completo nero sembra un'ombra che mi perseguita e mi divora in ogni istante. Un grillo parlante che più che coscienza mi ricorda il lato oscuro da cui non posso scappare.

«Sono due settimane che i nostri ragazzi le stanno dietro. Due. Ti sembra normale? È questo il loro lavoro?» chiede con calma apparente.

Sta per scoppiare ma sembra che me ne sia accorto soltanto io.

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