5. Damon

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Xander ferma l'auto all'uscita della Green Avenue; esco dalla macchina e, in pochi passi, sono di fronte all'entrata di quel labirinto buio e umido.

Faccio un respiro profondo di fronte alle vie che si aprono ai lati della strada fin troppo stretta.

«In che cazzo di casino ti sei messa?» sussurro.

Potrebbe essere ovunque. Entrambi potrebbero esserlo.

Cammino senza fare rumore, ascoltando qualsiasi piccolo suono che mi circonda. Una macchina in lontananza sfreccia sulla strada principale; un moscerino mi ronza vicino al viso. Svolto a destra. Controllo i passaggi più piccoli dove potrebbe aver trovato riparo, ma non la trovo. Svolto ancora a destra, dove un lampione sfarfalla emettendo rumori graffianti ed elettrici.

Il silenzio è tanto soffocante da farmi pensare al peggio.

A ogni angolo il cuore mi sale in gola. Gli occhi tentennano verso la strada per paura di trovarla distesa esanime, in un lago di sangue.

Paura.

Sì. Paura.

Un rumore alle mie spalle, quasi impercettibile, mette a tacere tutto: pensieri e battiti del cuore.

Trattengo il fiato e mi volto di scatto, afferrando con il palmo della mano il pugno prima che mi colpisca il viso.

«Ci rivediamo» sorrido.

Non posso dimenticarmi il suo viso sfigurato dall'età e dalla lunga cicatrice sulla guancia.

Il sicario mi mostra i denti, mette un po' più di forza sul pugno chiuso nella mia mano, e una goccia di sudore gli ricade dalla fronte rugosa. È accaldato ma non odora di sangue. Il giubbotto corto e scuro, è asciutto e pulito.

Alzo un sopracciglio. Non l'ha ancora trovata.

L'uomo alza la mano libera; una lama riflette la luce del lampione e cade in picchiata verso la mia giugulare. Lascio la presa e mi sposto schivando il colpo. Una fitta allo stomaco mi toglie il respiro.

Ci riprova e mi sposto ancora; si avvicina di un passo e io mi allontano di altri due. Afferro il suo braccio, lo rigiro provocandogli un leggero mugugno di dolore.

«Non è così semplice come l'ultima volta, eh?» sorrido.

Il sicario si libera con uno strattone e fa un passo indietro. Mi guarda con rabbia e un misto di preoccupazione. Lo sa; sa anche lui che non è come l'ultima volta, non ne è sorpreso.

Vuol dire che non è stato un caso. Vuol dire che sa di me e del mio passato.

Fermo a un paio di metri di distanza, lo guardo annoiato. Sistemo le maniche della camicia che si sono sciolte lungo gli avambracci, e le arrotolo con cura. «Be'? Che ci fai da queste parti? Una passeggiata notturna?»

Alzo lo sguardo scocciato mentre lui si fionda nuovamente su di me. Non lo lascio avvicinarsi troppo. Gli sferro un calcio in pieno stomaco facendolo cadere sull'asfalto.

«Allora?» mi avvicino a lui con calma e freddezza. Poso un piede sul suo petto per tenerlo a terra. «Ti hanno mandato per lei? Sei qui per zittirla?»

Mi guarda senza emettere alcun suono. Se le sue iridi potessero parlare, mi avrebbero già riempito di insulti, ma la sua bocca si apre appena per inalare aria. Il suo petto si alza e si abbassa sotto al mio piede; lo fa sempre più rapidamente.

Lo guardo ancora qualche secondo. Lo studio; cerco di capire se ha intenzione di sputare il rospo. Le rughe e la pelle rovinata dal tempo testimoniano che fa questo lavoro da almeno quarant'anni, troppi per cedere.

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