10. Stella

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Appoggio sul bancone il bicchiere di carta pieno di caffè caldo.

«Ecco a lei» sorrido.

Il signor Mullen, uno dei nostri clienti serali abituali, lo afferra con entrambe le mani e ricambia il sorriso.

«Grazie Stella, e scusami se ti ho fatto sforare con l'orario.»

Scuoto la testa.

So quanto è pesante il suo lavoro in ufficio, e quando è costretto a fare gli straordinari, sia io che Timothy tendiamo a chiudere il Ti bar dieci minuti dopo sapendo che di certo il signor Mullen sarebbe passato per un ultimo rilassante caffè.

Ha superato da poco i quarant'anni, ma le borse gonfie sotto agli occhi, lo invecchiano di almeno altri venti; ma ho sempre ammirato la sua postura retta ed elegante nonostante la fatica che gli si legge nel volto; i capelli scuri pettinati con cura con il gel, il sorriso che ci regala nonostante le notti insonni.

Il mio lavoro non mi stanca mai soprattutto grazie a clienti come lui.

«Buona serata, signor Mullen!»

Mi saluta con un cenno della testa. Esco dal bancone e lo seguo fino a fuori il bar, dove resto un momento sull'uscio con la porta aperta.

La città è cullata dalla notte, abbracciata dal silenzio e dalle luci arancioni che illuminano la strada dei negozi. In questa via, solo il Ti bar resta aperto fino a tardi.

Alzo le braccia al cielo e mi stiracchio.

«Anche oggi ho finito!» sbadiglio.

Mi allungo un po' a destra, un po' a sinistra, e poi rilasso i muscoli lasciandomi ricadere le braccia lungo i fianchi.

Rientro e giro il cartello appeso sulla porta: da aperto a chiuso.

«Diamoci da fare!»

Mi incammino verso lo sgabuzzino e il cellulare dentro alla tasca centrale del grembiule, squilla con insistenza. Provo a nascondere un sorriso divertito, perché so già chi è e che cosa vuole.

«Le cose vanno come andavano esattamente un quarto d'ora fa!» esclamo rispondendo alla chiamata.

«Quindi nessun problema?»

La voce di Timothy è stanca, eppure non si arrende nel chiamarmi preoccupato ogni quindici minuti.

Scuoto la testa e prendo dallo spogliatoio lo spruzzino di disinfettante e lo straccio.

«Se ci fosse stato un problema ti avrei chiamato. Me l'hai ripetuto almeno cinquanta volte oggi» sbuffo.

Raggiungo i tavoli del bar e, tenendo il cellulare stretto tra la spalla e il viso, inizio a pulirli.

«A mia discolpa, non fai sempre quello che ti viene chiesto.»

Sorrido.

«Come sta?» chiedo facendomi seria.

Timothy sospira talmente vicino al telefono, da creare una piccola interferenza.

Quella mattina sua sorella l'ha chiamato disperata perché la madre è caduta dalle scale e si rifiutava di andare in ospedale per fare accertamenti.

Da lì sono susseguiti una serie di rimproveri, prima alla madre per essere caduta, poi alla sorella per non averla caricata in macchina contro la sua volontà, e per non essere da meno, anche a me, perché mi rifiutavo di accettare la sua scelta di chiudere il bar in sua assenza.

Lo so gestire il locale, e non è la prima volta che lo faccio. Ma in questo periodo delicato, Timothy si sente in colpa a lasciarmi da sola qui dentro, con la paura che qualcuno possa venire a farmi un agguato.

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