12. Stella

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Arrivo di corsa alla fermata del bus e lo trovo parcheggiato a lato della strada.

«Ce l'ho fatta!» esclamo con il fiato corto.

La signora Clegg ha rallentato le pulizie, ed ero certa che non sarei mai riuscita a chiudere in tempo per poter raggiungere in orario l'autobus.

Mi avvicino al mezzo, e a ogni passo che faccio, è sempre più chiaro un borbottare frustrato che riempie il posto. Invece di salire, le persone escono dal bus mandandomi in confusione.

«Perchè scendono?»

Mi faccio spazio tra la folla di persone che si è formato sul marciapiede: alcuni si allontanano sbuffando, altri provano ad avvicinarsi come me per capire che cosa sta succedendo; altri ancora restano fermi immobili a guardare la scena mentre smanettano con il cellulare e fanno partire telefonate.

Con un po' di fatica, supero un paio di persone e mi ritrovo in prima fila sulla scena del delitto.

L'autista è in piedi di fronte a noi, e parla con qualcuno al telefono. Accanto a me, una donna con la fronte corrucciata e le braccia incrociate, lo guarda in attesa.

«Che cosa sta succedendo?» chiedo spaesata.

I suoi occhi scuri mi fulminano con lo sguardo, poi si addolciscono e sospira.

«Qualche cretino si è divertito a seminare chiodi alla fermata, e ora ha bucato.»

«Cosa?!» esclamo incredula.

Mi copro la bocca con entrambe le mani.

La donna scuote la testa sempre più esausta. Ha un tailleur elegante grigio; probabilmente ha finito da poco di lavorare.

Le persone attorno a noi, lasciano di colpo qualsiasi cosa stavano facendo, e guardano speranzosi l'autista. Seguo il loro sguardo e noto che ha chiuso la chiamata.

«Allora? Mandano un autobus sostitutivo?» chiede un uomo a pochi passi da me.

L'autista, un signore sulla sessantina, basso e ben piazzato, scuote la testa.

«Mi dispiace signori, la linea 4 finisce la sua corsa per oggi.»

«Scherza vero?»

«Hanno detto che era comunque l'ultima, e non hanno-»

Il passeggero gli volta le spalle e se ne va senza neanche lasciarlo finire di parlare. Così come lui, anche la donna al mio fianco si allontana dal marciapiede. Nel giro di pochi secondi, la folla che copriva la fermata del bus, si dilegua alla ricerca di un taxi o si incammina verso la fermata successiva per non perdere altro tempo.

L'autista calcia con forza la gomma bucata. È frustrato tanto quanto noi. Si porta una mano sulla fronte per poi grattarsi la nuca.

«Grazie comunque» lo saluto.

Mi guarda per qualche secondo, concentrato a capire se lo sto prendendo in giro o sono seria. Accenno a un sorriso e il suo braccio si affloscia lungo il fianco, esausto. Fa un respiro profondo e lo ricambia con uno un po' più stanco.

Lo saluto con un cenno della nuca e, come tutti gli altri passeggeri, mi allontano da lì. Rispetto a loro però, io so già dove devo andare.

Non ci penso. Mi incammino senza lasciare il tempo a qualsiasi paura si nascere nella mia testa.

Raggiungo il sottopasso, lo attraverso e sbuco nella 17th Str. come se fosse la cosa più normale di sempre.

Mi schiarisco la gola e canticchio mentalmente una canzone ascoltata oggi a lavoro.

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