Capitolo 33

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Tre anni prima, Mondo dei vivi. Anno 2057.

«Al grave avevamo tante storie. Racconti sussurrati, favole della buonanotte...Leggende in punta di labbra, al chiarore di una candela. La più conosciuta era quella del fabbricante di lacrime. Narrava di un luogo lontano, remoto...Un mondo dove nessuno era capace di piangere, e le persone vivevano con anime vuote, spoglie di emozioni. Ma nascosto tra tutti, nella sua immensa solitudine, c'era un omino vestito di ombre. Un artigiano solitario, pallido e ricurvo, che dai suoi occhi chiari come il vetro era capace di confezionare lacrime di cristallo. Andava da lui, la gente, chiedendo di poter piangere, di poter provare un briciolo di sentimento-perché nelle lacrime si cela l'amore e il più compassionevole degli addii. Sono la più intima estensione dell'anima, ciò che, più della gioia o felicità, fa sentire veramente umani. E l'artigiano li accontentava...Infilava negli occhi delle persone le sue lacrime con ciò che contenevano, ed ecco che piangeva, la gente: era rabbia, disperazione, dolore e angoscia. Erano passioni laceranti, disillusioni e lacrime, lacrime, lacrime- l'artigiano infettava un mondo puro, lo tingeva dei sentimenti più intimi e logoranti. Ricorda: non puoi mentire al fabbricante di lacrime.»

Sussurrava Becky-Betty Smith, tenendo con una mano quella intubata della sua migliore amica e con l'altra reggeva il libro di cui aveva appena letto la prima pagina. Il fabbricante di lacrime, Erin Doom. Aveva solo undici anni. Fissava l'amica nel letto con gli occhi sul punto di esplodere. Ogni giorno si recava nell'ospedale in cui risiedeva la sua amica, si sedeva sulla piccola seggiola situata accanto al lettino e le leggeva un libro: anche quelli vietati, porgendo estrema attenzione a non farsi scoprire. Aspettava, era paziente; credeva che attendendo la sua amica si sarebbe svegliata prima. "Dobbiamo essere pazienti" "Possiamo solo sperare" "C'è poco che possiamo fare" ripetevano i dottori. Ma poco non era niente, no? La bambina che giaceva impotente su quel lettino era l'unica amica che lei avesse mai avuto. Andava a trovarla tutti i giorni, nonostante la bambina non le rispondesse mai. Coma. I genitori stavano pensando di staccarle la spina, ma questo Betty non lo sapeva. Le accarezzava i capelli con delicatezza, come ripeteva Nica nel libro che stava leggendo.

«Sei qui anche oggi, Becky. Un nuovo libro? Il fabbricante di lacrime? Non è di tanti anni fa?»

Fece irruzione nella stanza il signor Harley, un infermiere simpatico. Era sui trent'anni, o almeno, quella era l'età che dimostrava. I suoi capelli erano rasati, toccandoli ti pungevi: quasi come con gli aculei di un riccio. Harley aveva ragione, quel libro era di tanti anni fa.

«2021, è uscito nel 2021. Per cui sì, è di tantissimi anni fa. Ma vecchio non vuol dire brutto, no?»

Disse la bambina, passando lo sguardo dalla sua amica agli occhi verdi dell'infermiere. Becky osservò la ragazza stesa sul lettino. Il suo nome era Carol, una bambina bellissima. I suoi capelli erano rossastri, come il tramonto. Degli enormi occhi azzurri si illuminavano ogni volta che sorrideva ed insieme il suo viso si accendeva, mostrando infiniti colori. Betty aveva impresso il suo ultimo sorriso della sua mente, quasi come se le avesse scattato una fotografia. Lo aveva giurato, il suo ricordo sarebbe stato infinito. Carol era una bimba dolcissima, possedeva un cuore infinito. Era impossibile non innamorarsene.

«La mia amica si sveglierà?»

Chiese Becky abbassando uno sguardo triste nel letto. Se solo quella dannata macchina fosse andata più lentamente. Se solo loro avessero posto maggiore attenzione.

Dieci mesi prima

Becky e Carol avevano deciso di uscire dalla casa di quest'ultima. Si erano conosciute in orfanotrofio, erano state adottate in giorni vicini, ma da famiglie diverse.

«Becky, sei proprio sicura che sia una buona idea? Io ho paura. Alla mia nuova famiglia non piace quando corro rischi.»

Disse Carol, cercando di convincere l'amica a tornare dentro casa. C'era poco da fare: Becky poteva definirsi la persona più testarda del mondo.

«Oh! Non fare la mocciosa; Siamo grandi ormai! Abbiamo undici anni. Possiamo benissimo uscire di casa.

«Va bene, se lo dici tu...»

Poco dopo Betty stava giocando sul ciglio della strada, in bilico tra il marciapiede e l'asfalto su cui sfrecciavano prepotentemente le macchine. Un'auto passava a tutta velocità, Carol spinse Becky via, prendendosi l'auto al suo posto.

«Mi dispiace, piccola, ma ci sono basse probabilità. Inoltre...»

«Inoltre?»

«I suoi genitori vogliono staccare la spina ed i medici credono che forse sia la scelta migliore»

Per quanto fosse possibile, il mondo di Becky si distrusse nuovamente. Il suo cuore si strappò, si sgretolò, si annientò, si lacerò. Scoppiò in lacrime, annebbiando gli occhiali da vista. No, no, no. Non potevano dire sul serio. La sua amica non poteva morire. Era colpa sua, era tutta colpa sua. Sarebbe dovuta finire lei sotto quella macchina. Era sempre stata una bambina irrequieta, sin da piccina; per questo motivo si ritrovava sempre da sola: portava guai. Lo sapevano tutti, eppure Carol era una bambina dall'animo buono come lo zucchero filato, dolce come il miele, e volle dare un'occasione alla bambina che nessuno voleva. Pagò con la vita. Becky scappò via dall'ospedale, con gli occhi annebbiati dalle lacrime e la vista annebbiata. Si sentiva in trappola, si sentiva in colpa, si sentiva morta. Si sentiva colpevole. I cacciatori si sentivano in colpa dopo aver ucciso dei poveri animaletti indifesi? Betty si fermò sul retro dell'ospedale. Un grido di dolore s'impossessò delle sue labbra, così come del suo cuore. Un mese dopo seppellirono la bambina dai capelli del colore del tramonto. Da quel giorno Becky la cercava nelle anime dei morti. La cercava tra i demoni, tra gli angeli, tra la gente comune. La cercava nei volti delle persone in giro e la cercava tra le voci delle persone all'altro mondo.

                                                                                                              *

Elvis ed Emy si stavano incamminando per andare alle cosiddette "Celle mentali" o, dette anche, "Prigioni mentali". Elvis teneva lo sguardo fisso dinanzi a sé, pronto ad avvelenare qualsiasi essere con le sue iridi color sangue. Emy, invece, osservava il comportamento del demone, cercando di captare qualcosa di significativo in ogni sua espressione; cosa che Elvis odiava ma, nonostante ciò, preferiva rimanere in silenzio piuttosto che intraprendere una conversazione con la ragazza angelo.

«Ecco, siamo arrivati.»

Disse lui, osservando l'enorme buco nero che si presentava davanti a loro. Pareva pronto a divorare ogni cosa. Elvis pensava al fatto che erano simili, lui e quel portale: entrambi portavano paura e distruzione.

«Sai, demone. Non sono certa di volermi recare in questo luogo insieme a te. Voi esseri dell'inferno portate ogni sofferenza a noi angeli e agli umani.»

«Perché siete così convinti del fatto che siamo noi ad arrecarvi dolore. Spiegamelo. Qual è il motivo? Perché le nostre ali sono più brutte? i nostri canini sono affilati? Le nostre unghie possono diventare coltelli? Perché ho gli occhi rossi? Perché uccidiamo, uccidete anche voi! Esseri dell'inferno, ci chiamate così. Indovina, bellezza. L'inferno non esiste e nemmeno il paradiso! Noi demoni non abbiamo nessuna colpa se la vostra vita è una patetica delusione! Vi serve qualcuno da incolpare? Incolpate voi stessi.»

Esplose Elvis. Le vene del collo gonfie, gli occhi più rossi del solito. Era arrabbiato, tutta quella situazione non faceva che provocargli rabbia. Perché dovevano essere loro i cattivi della storia? Perché?

Se un umano dice di aver visto un angelo tutti gli sorrideranno contenti. Se un umano dice di aver visto un demone tutti tremeranno impauriti.

La ragazza rimase zitta. Dopo il discorso di Elvis, ogni parola sarebbe risultata inopportuna. Si arrese. Attraversarono la nube, volando al suo interno. Le strade che conducevano ai corridoi erano libere. Nessuna ombra oscura, nessuna guardia, Assolutamente niente. Pensarono ad un lieto fine, invece, era solo l'inizio. L'inizio della fine.

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