Capitolo Undici

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Un senso di confusione e perdizione mi annebbiava la testa e la vista. In bocca un sapore acido, lo stomaco in subbuglio. Pregai di non vomitare per la terza volta.

Sapevo di dover uscire da lì, di andarmene prima che qualcuno di quei coglioni ubriachi mi trovasse. Sapevo che non avrei avuto la forza di reagire, di rimetterli al loro posto. La mia mente e il mio corpo mi rispondevano a malapena mentre mi aggrappavo alle pareti cercando di trascinarmi in avanti, un passo malfermo dopo l'altro.

Tuttavia, non sarei andata da nessuna parte, non finché non l'avrei trovata. Le parole pesanti che ci eravamo lanciate addosso, spinte dall'alcool e dalle droghe che ci circolavano in corpo, mi bruciavano ancora la gola.

La cosa più brutta era che pensavo ogni cosa che le avevo detto, ogni singola parola di veleno uscita dalla mia bocca era vera, e lei lo sapeva, per questo aveva fatto la cosa che più di tutte mi avrebbe ferita, distrutta.

E adesso non la trovavo più. La serata era degenerata, c'erano almeno cinque ragazzi svenuti nel salotto della casa ormai ridotta in un caos. Era arrivata gente poco raccomandabile e avevo visto già fin troppe ragazze fuggire via da strusciamenti non graditi.

Quella gente non accettava un no di buon grado, e se io ero quasi arrivata al limite, lei lo aveva sicuramente oltrepassato, considerando il miscuglio di droghe che aveva ingerito poco prima di sparire al piano di sopra con... Non volevo pensarci, non in quel momento.

Ormai contava solo che la trovassi, che uscissimo da quel tugurio e che l'Uber che avevo chiamato con l'ultimo residuo di batteria, ci portasse a casa. Sane e salve.

L'indomani, dopo il post sbornia, ci sarebbe stato tempo per raccogliere i cocci della nostra amicizia e cercare di rimetterli insieme.

«Ti prego...» Un piagnucolio giunse alle mie orecchie, la voce così flebile da essere a malapena udibile.

Ma l'avrei riconosciuta ovunque.

«Sta ferma.» Anche quella di voce l'avrei riconosciuta tra mille.

Un calore incandescente mi scaldò il viso e mi venne di nuovo voglia di vomitare. Io mi stavo preoccupando per lei e lei si stava scopando... Cristo che stupida che ero.

Un suono forte e insistente mi entrò nei timpani. Alzai la testa di scatto, il viso e il collo sudavano freddo, il respiro affannoso. Annaspai, cercando l'aria che non riusciva a entrare nei polmoni.

Sentivo come se qualcuno mi stesse comprimendo il petto, come se mi stesse tenendo giù, sott'acqua.

La paura si impossessò del mio corpo, gli arti erano rigidi incapaci di muoversi e reagire. Ebbi l'impulso di urlare, ma la voce non uscì.

Serrai gli occhi, così forte da sentire quasi dolore. Dovevo tornare in me, dovevo calmare il respiro, i battiti del cuore accelerati.

Io e il panico eravamo vecchi amici, solo che era un po' che non mi faceva visita. E cazzo, non mi era mancato per niente.

Calmati, Coraline dissi a me stessa. Era solo un incubo, calmati.

Così piano piano, i secondi che mi sembrarono interminabili, respirai lentamente e a fondo. Sentii il corpo che si iniziava a rilassare, la mente che cercava pensieri felici che scacciassero via quel sogno orribile.

Quando il cuore iniziò a battere a un ritmo normale, mi accasciai di nuovo con la schiena sul materasso del mio letto.

Ero nella mia stanza, a Roma, al sicuro.

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