Parte 1 senza titolo

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Nota dell'autrice:

Anni fa scrissi una fan fiction. Era acerba, molto immatura, ma l'idea mi piaceva e qualche settimana fa ho scelto di riscriverla. Si tratta di una prima stesura, non l'ho mai riletta o rimaneggiata perché non ne avrei il tempo né le energie. L'ho scritta per puro diletto, spero vogliate perdonare i refusi e gli errori che mi saranno sfuggiti nella foga di mettere per iscritto una storia che aveva fretta di uscire.

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 Quando riemerse dalle macerie le ci volle un po' per realizzare cos'era successo. Intorno a lei alcuni fantasmi fluttuavano furiosi al seguito delle loro teste in una caccia senza fine, mentre urla ed esplosioni accompagnavano il fiotto di maledizioni che illuminavano la notte. Nelle orecchie di Evaline i suoni erano ovattati, come se provenissero da lontano, un fischio la trafiggeva da parte a parte impedendole di pensare a qualsiasi cosa, perfino al corpo immobile di Fred e di Percy chino sul suo.

Da quanto tempo era cominciata? Non ne aveva idea. Dall'istante in cui aveva visto la sagoma nera di Piton sparire oltre la finestra aveva cominciato a muoversi come se a comandare il suo corpo fosse qualcun altro, non lei. Evaline si era rintanata da qualche parte, nascosta e assopita, mentre obbediva alle direttive di Minerva. Fu l'arrivo degli studenti nella Sala Grande a destarla, costringerla a guardare negli occhi i ragazzini del primo anno e lì, in quel terrore, trovare sé stessa. Il suo primo e unico pensiero sarebbe stata la loro sicurezza, si ripeté mentre camminava tra loro e li rassicurava, la voce calma e dolce, i modi gentili, una calma che cozzava con il groviglio che si dibatteva nel suo petto. La voce del Signore Oscuro la fece vacillare, ma si mantenne comunque salda come le era stato insegnato.

«Tornerai qui una volta che gli studenti saranno al sicuro. Non ti lascerai distrarre da altro, giusto?» Minerva McGonagall l'aveva guardata da dietro le lenti squadrate degli occhiali, la bocca serrata in una delle sue espressioni severe. Evaline aveva colto la sua allusione e avrebbe tanto voluto rispondere con altrettanta fermezza, ma tutto ciò che era riuscita a fare fu un cenno rapido del capo. Quando si fu voltata per scortare i ragazzi Evaline aveva sentito lo sguardo della collega fisso sulla sua nuca, poteva sentirlo mentre la trafiggeva.

Affidati gli studenti ad Aberforth tornò a sentirsi un burattino manovrato da fili invisibili, una sensazione quasi rassicurante, perché tutto quello che doveva fare era starsene rannicchiata dentro quel cantuccio sicuro all'interno di sé e seguire quel flusso. Dopo tutto era stata allevata per eseguire gli ordini, no? Era facile, maledettamente facile: restare con gli studenti, combattere all'interno delle mura di Hogwarts insieme ai suoi colleghi, ai membri dell'Ordine, il lascito di Silente schierato tra quelle pareti in cui aveva trascorso gran parte della sua vita. La luce di due maledizioni che si scontrarono la fece sobbalzare e per un attimo vide il proprio riflesso su un vetro infranto e faticò a riconoscersi. La veste da notte era sgualcita e sporca, la treccia scarmigliata pareva un animale morto, con uno strato di polvere e detriti impigliati tra le ciocche e sangue rappreso sulla fronte. Aveva sbattuto? Non ricordava. Sulle sue spalle era appuntato un mantello nero, era stato allacciato con cura solo poche ore prima, in un momento rubato che pareva incastonato in un tempo lontano, lontanissimo. La stoffa quasi toccava il pavimento, ma per fortuna non l'intralciava nei movimenti. Forse era a causa di quel mantello che Minerva le aveva posto quella domanda, l'allusione nel tono e nei suoi occhi severi.

Ad Evaline non importava granché. Si era rannicchiata in quel giaciglio sicuro, dentro di sé, nel tentativo di obbedire a ciò che le era stato ordinato. Tornò a reprimere il galoppante desiderio di ignorare gli ordini e corse dove c'era bisogno del suo aiuto, quel debole aiuto che era in grado di fornire ad Hogwarts e a Potter. Non era riuscita a guardarlo in faccia neanche una volta da quando era tornato, né ne aveva intenzione. Combatté le maledizioni con una maestria che non era la sua, obbedì meccanicamente a ciò che il corpo le suggeriva di fare, scansando fiotti di luce e macerie che le rovinavano addosso. Ad ogni balzo, ad ogni piroetta la sua lunga treccia danzava, il rosso dei capelli illuminato dalle maledizioni, il sangue rappreso sulla fronte e sulla tempia. Inseguì un mangiamorte ferito e si trovò in biblioteca, dove alcuni libri incantati si scagliarono sull'uomo colpendolo a ripetizione sul cranio già vessato da una fattura lanciata da chissà chi. L'uomo fece per voltarsi, ma esitò, la bacchetta in mano e gli occhi sgranati.

EvalineDove le storie prendono vita. Scoprilo ora