Capitolo 16

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L'ira di Dolores Umbridge si abbatté su studenti e professori e in pochi si salvarono. Severus tollerò la sua presenza con il distacco di sempre, che tuttavia non riuscì a mantenere durante le lezioni di occlumanzia. Tornava da lei chiuso in un mutismo ottuso, impenetrabile, mostrandosi assente e indifferente a qualsiasi cosa la riguardasse. Evaline tendeva a muoversi in punta di piedi, in quei casi, aspettando paziente che si sollevasse da quello stato. Di solito bastava una notte di sonno, ma quando giunse l'ultimo incisivo incontro tra lui ed Harry, accadde qualcosa di cui lui non fece e non avrebbe mai fatto menzione. Non fece ritorno nelle loro stanze fino a notte inoltrata, quando lei fu sul punto di gettarsi un mantello sulla veste da camera e recarsi nei sotterranei o chissà dove si era cacciato. Invece lui comparve sulla soglia, il volto gelido contratto in una maschera di rancore e frustrazione. Pallido e silenzioso, entrò nelle stanze con addosso il freddo della notte che ancora gli gelava la pelle.

«Ero preoccupata.» Gli disse quando la porta fu chiusa, standosene in piedi davanti a lui con una mano serrata sul mantello non ancora appuntato. «Stai bene?»

«Non darò più lezioni a Potter.» Decretò, gelido. «Non voglio trovarmi nella stessa stanza con lui o gli torcerò il collo con le mie mani.»

Non era una minaccia a vuoto, era sinceramente provato, animato da un rancore che la lasciò muta, silenziosa, una presenza che non osava interferire con i fantasmi dell'uomo. Sapeva di non dovergli chiedere altro, ma ci volle parecchio prima di accettarlo. Quella notte si limitò ad aiutarlo a compiere gesti semplici che tuttavia gli apparvero complicati, innaturali. Lo svestì, gli passò un panno immerso nell'acqua calda, lavando via il gelo della sua pelle pallida. Anche a letto pareva aver dimenticato com'è che si dorme. Evaline gli si accovacciò contro, senza però invadere il suo spazio, scaldandolo senza pretendere nulla in cambio.

Da quell'episodio, Severus divenne un po' scostante, distratto, il più delle volte assente. Tornava sempre da lei, però, alla fine di ogni giornata si trovava a cercarla. Non c'era irruenza le volte in cui facevano l'amore, spesso si limitava a scostarle i vestiti e tenere lo sguardo nel suo mentre trovava sollievo tra le sue cosce, sulle sue labbra, nei piccoli gemiti che rompevano i respiri affrettati. Era diventato più dolce, in quei ritagli di tempo, premuroso, sempre più silenzioso, eppure contemplativo, assorto.

«Non riesco ad immaginarmi padre, Evaline.» Le disse una notte, il volto di Evaline adagiato contro di lui che fissava il soffitto con sguardo assente. Lei non si mosse, per un po' gli diede forse l'impressione di essersi addormentata.

«Secondo me» iniziò lei, senza muovere un muscolo a parte le labbra, ancora parzialmente adagiate contro di lui. «...il fatto che tu ci stia pensando parecchio ti rende già pronto, in un certo senso.»

«Ti vedi in me qualcosa che non esiste.»

«Oh, secondo me sei tu che vedi tutt'altro.» Gli sorrise teneramente, portando lo sguardo nel suo dopo aver sollevato leggermente la testa. «Vorrei tanto che per un istante, un solo misero istante, tu veda quello che vedo io.»

«Se ti avessi incontrata prima...» Non continuò, la voce si frantumò l'istante in cui le vide addosso una paura improvvisa, un dolore che non era riuscita a tenere per sé. Sollevò una mano e raccolse la sua guancia, dove posò il palmo. «Non volevo dire quello che pensi.»

«Non iniziare più con un "se", ti prego.»

«Non lo farò, perdonami.»

«E non stare a pensare a come saresti o meno se diventassi padre. Ti fai solo un torto. Non sei come ti vedi, sei molto di più e dato che non vuoi accettarlo, lascia a me il compito di immaginarci genitori.»

Lui fece per dire qualcosa, ma nei suoi occhi lesse ciò che bastava a lasciarlo muto, accondiscendente. Dopo un po', con lei nuovamente adagiata sul cuscino, si voltò su un fianco per guardarla mentre chiudeva gli occhi. Non dormiva, lo sapeva, gli bastava ascoltare il suo respiro per sapere quand'è che il sonno prendeva il sopravvento.

«Cos'è che immagini, allora?»

«Più di un bambino.» Mormorò lei, le palpebre ancora chiuse. «Sai...potrei avere dei gemelli, no?»

«Probabile, sì.»

«Vorrei che avessero i capelli neri. Vorrei che ti somigliassero.»

«Sarebbe un peccato. Sei tu quella bella.»

«Oh, sapessi quanto ti trovo affascinante, invece. Trovo bellissima ogni cosa di te.»

Lui esitò, a disagio. «Lusingato. Ma non lo sono. Preferirei che avessero il tuo aspetto.»

Evaline non commentò, limitandosi ad increspare le labbra in un sorriso appena percettibile, che sapeva di dolce trionfo. Sentirlo parlare di un futuro l'accese di una speranza tanto accesa da farle impazzire il cuore, manco fosse stato l'ennesima farfalla emanata dalle sue emozioni. 

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