Capitolo 25

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Il Ballo del Ceppo fu il tripudio di tutto ciò che detestava. Andò più volte a controllare che tutto fosse in ordine, controllando ogni oggetto introdotto dall'esterno e minacciando gli studenti di espellere il primo che avesse osato correggere le bevande. Si soffermò a lungo su quelle canaglie dei Weasley, a lezione, che già una volta aveva perquisito, strappando dalle loro tasche ogni caramella, anche la più innocua. C'era la traccia degli incantesimi di Evaline in ogni spruzzo di neve che cadeva dal cielo, in ogni uccello di cristallo che svolazzava per la Sala Grande e nei decori evanescenti che svanivano se toccati, per poi ricomparire altrove. Aveva dato il meglio di sé, anche troppo, perché lui trovò tutto così eccessivo da essere costretto a prendere aria in più di un'occasione. Nel parco tenne il conto dei nascondigli in cui gli studenti si sarebbero infrattati, lieto di potersi svagare togliendo punti a destra e a manca.

Insomma, fece di tutto per tenersi impegnato e tenere lontano il pensiero dell'imminente disastro. Avrebbe fatto la figura dello stupido davanti a colleghi e studenti, perso la dignità conquistata e dimostrato ad Evaline quanto era stato sciocco da parte sua pretendere una serata come quella insieme a lui. Non era il suo campo, non era il suo ambiente, non era fatto per eventi sociali, né divertimenti frivoli ed eleganti.

Glielo doveva, però. Ogni giorno che passava, il Marchio Nero era sempre più nitido, un conto alla rovescia prima del buio. Non ci sarebbero stati più balli, non ci sarebbe stato più motivo di gioia né di felicità e lei avrebbe maledetto il giorno in cui aveva incrociato lo sguardo con il suo, al Ghirigoro.

Attese Evaline ai piedi della scalinata d'ingresso, pochi minuti prima dell'orario in cui sarebbero arrivati gli studenti. Fu puntuale. Sentì il tocco dei tacchi alti sulla pietra e poi la vide: un bagliore dorato avvolto dallo svolazzare di farfalle luminose, dello stesso colore dell'abito. Il taglio della stoffa era semplice, l'unione tra lo stile impero con il taglio sotto il seno e quello greco, con un'unica spallina di stoffa arricciata che pioveva in basso, fino alle caviglie sottili. Camminava piano, era incerta sui tacchi, ma scese le scale senza incidenti né scivoloni, raggiungendo il suo braccio senza avere la benché minima idea di quanto l'avesse turbato.

«Stai bene.» Fu lei a dirlo, non lui. Piton aveva un completo nero, la stoffa appena più pregiata, come il mantello che gli scendeva dritto. Non ci aveva messo chissà che sforzo, ad un primo sguardo poteva sembrare vestito come se fosse un normale giorno di scuola. C'era un ricamo nero, sulla stoffa, un rilievo che cingeva i polsi.

Non rispose al suo complimento, sbirciò i suoi capelli, ora raccolti sulla testa e tenuti su dal jobberknol dalle ali spiegate. Un'unica ciocca scendeva giù, un ricciolo appuntato con cura in modo che le incorniciasse il volto, senza oscurarlo. Non aveva altri gioielli e lui se ne rammaricò, perché sarebbe stata incantevole con altro oro sulla pelle bianca, morbida, che profumava di quell'essenza semplice di melograno.

«Sei truccata.» Borbottò lui, esitante.

«Ah, spero non troppo.» Le guance le si accesero e una nota di panico la fece tremare. Era tesa.

«No.» Si schiarì la voce. «No, va bene così.» Aveva le ciglia nere, la lunghezza più accentuata verso l'esterno e un tocco di dorato sulle palpebre.

Gli sorrise e tenendosi al suo braccio si lasciò condurre dentro la Sala Grande, varcando la soglia con timidezza, come timido era il sorriso che rivolgeva ai colleghi e gli addetti ai lavori. Sapeva di apparire rigido, freddo, distaccato, perfino infastidito dalla presenza di Evaline. Non poteva farci nulla, non era fisicamente in grado di mostrare altro se non quella spietata facciata. Pensassero quello che volevano, in quel momento a lui importava solamente sentire la presa di Evaline sul suo braccio destro, la presenza dorata e calda che tornava spesso a guardarlo e sorridergli come se, per quella notte, la persona più fortunata al mondo fosse lei e solo lei.

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