Capitolo 13

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Avevano insieme concordato che si sarebbero incontrati una volta a settimana e così fecero. Durante quelle sedute lei non avvertiva in sé alcun cambiamento, se non un cenno di calore nel punto in cui la bacchetta era posata. Per il resto se ne stava immobile, le mani posate in grembo in una postura composta e un po' rigida che, una volta sciolta, le lasciava addosso parecchi dolori. Guardava il viso arcigno dell'uomo e le viscere a volte si contorcevano come tentacula velenosa, il cuore saltava un battito, ma oltre questo non accadeva nulla. In quelle settimane il colorito di Evaline si era fatto più sano, le guance rosa e più piene quando sorrideva, ma per il resto aveva conservato una magrezza ancora evidente. La imbruttiva quella magrezza, la gonna della divisa cadeva sui fianchi con la pesantezza di uno straccio abbandonato su uno sgabello e i capelli erano stopposi, secchi, spesso radi lì dove anni prima fiorivano ciocche corpose di un bel rosso acceso che ricordava autunno, foglie cadute dagli alberi, note dorate ad illuminarle.

Non si curava del proprio aspetto, né di quello del prossimo. Nonostante l'apatia dell'incanto in cui era imprigionata, Evaline coglieva i pregi nascosti sul volto di chiunque. Rupert, per esempio, il compagno Tassofrasso del suo stesso anno: aveva il volto massacrato dall'acne, capelli color topo appiccicati sulla testa e gambe e braccia che sembravano troppo lunghe per il suo corpo non ancora formato. I suoi occhi erano grandi, però, gentili, di un bel nocciola che al sole brillavano di sfumature più calde. Era buono e la sua bontà era tutta nei suoi occhi.

Anni prima aveva colto qualcosa anche dal volto del ragazzo di Serpeverde che ora le sedeva di fronte ogni settimana, forse ignaro dei pensieri che affioravano nella sua mente. Si era ritrovata a pensare all'espressione assorta e tormentata che aveva scorto al Ghirigoro, gli occhi neri resi umidi da pensieri che lo angosciavano e pungolavano, la postura ricurva di chi era schiacciato da pesi che lei avrebbe voluto togliere. Di rado aveva rivisto quell'espressione durante l'unico anno che avevano vissuto insieme da studenti, lui aveva la capacità di celarsi dietro un'impeccabile e fredda indifferenza.

Di quegli incontri nel suo ufficio le rimasero impressi l'odore pungente dei liquidi di conservazione contenuti nei barattoli e la penombra della sera che gettava cupi pensieri sul viso indurito del professore. Anche lui aveva perso peso, la pelle bianca del viso era tirata e la bocca serrata in una smorfia che il più delle volte esprimeva fastidio, disgusto, sadico divertimento. Non c'era traccia di gioia né di calore e la sé stessa nascosta dentro di lei si contorceva dal dolore a quella consapevolezza. Non lo aveva mai visto sorridere con leggerezza.

«Per oggi abbiamo finito.» Esordì lui, la notte ormai sovrana del castello. Lo vide allontanare la bacchetta dalla propria fronte e abbandonare le spalle contro lo schienale della sedia, una ruga tra le sopracciglia nere. Lei ammorbidì la propria postura con un sospiro sollevato, la schiena martoriata da quella posizione che mai aveva cambiato durante quella seduta.

«Come sta andando?» La voce di Evaline tradiva stanchezza, era arrochita e bassa, il tono di chi cercava sempre di non recare disturbo al prossimo. «C'è qualcosa che posso fare per renderti il lavoro più facile?»

La fissò una manciata di istanti di troppo, gli occhi neri che coglievano i pensieri di lei senza che nessuno gli avesse dato licenza di farlo. Lei non lo sapeva, ma anche se lo avesse saputo non glielo avrebbe impedito.

«No, non puoi fare altro.» Rispose lui alzandosi, il fruscio del mantello dietro di sé. «Immagina dei fili di una ragnatela che diventa più ampia man mano che trascorrono gli anni. Io devo percorrere quei fili a ritroso e cercare di arrivare fino in fondo senza perdermi. Fino ad ora non ho avuto grossi problemi, gli anni di Hogwarts sono tutti uguali e sono costellati da eventi privi di nota.» Fece una pausa, una smorfia sprezzante sul finire. «Theodore Williams?»

Lei parve a disagio. «Siamo cresciuti insieme all'istituto. Lui mi ha chiesto di uscire, non so perché, non ho mai mostrato alcun interesse e...»

«Sei migliore di lui e molti ragazzi non lo accettano.» La interruppe bruscamente e le diede le spalle, recuperando alcuni libri sparsi per gli scaffali. «Cercherà di eclissarti, ci proverà in tutti i modi. Si è avvicinato per proprio tornaconto.»

Evaline si domandò come potesse sapere così tanto di Theodore, ma lasciò perdere, poco interessata alla questione. Aveva capito che il momento del congedo era arrivato, così si alzò dalla sedia e a malincuore lo salutò.

«Buonanotte, Severus.»

«Professor Piton.»

La tentacula tornò ad agitarsi nella sua pancia mentre si voltava per lasciarsi lo studio alle spalle. Chiusa la porta ebbe modo di muovere pochi passi che quella si aprì e apparve di nuovo lui, gli occhi neri piantati in quelli di Evaline.

«Il mantello, Rosier.» Sibilò con una punta di fastidio, porgendoglielo senza troppe cerimonie. Lei accorse e lo prese in fretta, aggrappandosi alle sue dita nell'atto di sfilarlo dalla sua mano. La voce nascosta dentro di sé pigolò, il cuore saltò nuovamente un battito e sul viso comparvero chiazze rosse, un imbarazzo che le bruciava la pelle mentre dal suo corpo si levavano due minuscoli uccellini evanescenti. Evaline non vide il piumaggio colorato, le note calde che passavano dal rosso al ramato, né il battito d'ai che, frenetico, li portava fino al professore che le lesse qualcosa negli occhi, pensieri che per un attimo lo stordirono. Lei si voltò in fretta, mantello appallottolato tra le braccia, i piedi che in fretta la portarono via dal sotterraneo, mentre quegli uccellini ronzavano ancora intorno al volto dell'uomo. Lui, stordito e irritato, li scacciò via con una manata e si tumulò nel proprio ufficio sbattendo la porta così forte da indignare i quadri appesi alle pareti.

EvalineDove le storie prendono vita. Scoprilo ora