CAPITOLO 36: Continuum perpetuo

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L'amore tra immortali così imperante e impietoso e il vincolo di sangue tra me e Draven rendeva la nostra separazione insopportabile e logorante.
Ogni attimo lontani era un supplizio sia fisico che mentale e non so quanto ancora avrei potuto resistere dallo spalancare quella fottuta porta oltre la quale potevo percepire la sua presenza errante e errabonda e semplicemente abbracciarlo e perdermi in lui e in noi.
Ma non mi sentivo ancora pronta ad andare oltre a ciò che era successo, non ero pronta a perdonarmi e a perdonarlo.
Non ero ancora pronta ad essere  indulgente con me stessa per aver ceduto agli impulsi del mio nuovo corpo e perciò avere tradito il mio amato e allo stesso modo non ero ancora pronta a dimenticare le sue parole dure e il suo sguardo deluso che però, paradossalmente, ero più che certa di meritare.
Non c'era alcun ripensamento in me: l'amavo disperatamente.
E proprio forte di questa granitica certezza volevo riunirmi a lui limpida e senza più rancori in sospeso o domande lasciate senza risposta che potessero continuare ad infestare la mia mente.
Volevo riunirmi a lui padrona della mia nuova pelle che avevo scelto io stessa di indossare, presente a me stessa e degna di lui.
Degna del titolo e dell'onore di cui lui aveva scelto di insignirmi pur essendo allora convinto che non fossi io la predestinata e nonostante quello.

Ma i giorni trascorrevano nell'agonia del distacco e mi convincevo sempre più che avrei dovuto accettare il suo aiuto per riuscirci e che infine avrei dovuto cedere.
Mi sentivo vuota, svuotata. Apatica e spossata e soltanto girarmi nel letto richiedeva tutte le mie energie lasciandomi immobile e statica come una larva.

"Mio Signore..."
lo chiamai esausta al crepuscolo di  quello che immaginavo fosse il quinto giorno, ma non ne ero certa perché ormai avevo perso qualsiasi riferimento e orientamento confinata tra quelle quattro mura.
Ero irritata dalla forza del legame, ma ormai sopraffatta e consapevole che non potessi più ignorarlo o ostinarmi.

Il battente si schiuse all'istante e lui si palesò sull'uscio, il viso contratto dalla preoccupazione per la mia chiamata inattesa seppur a lungo desiderata.
Anche lui era visibilmente affaticato, la sua bellezza resa tragica ed eterea dai segni della stanchezza.

"Mia Signora, stai male?"
mi domandò cauto, ma la sua aura potente mi lambì ad ondate.
Era scura e odorava di taciuta sollecitudine e tormento, di angoscia e oppressione troppo a lungo sopiti e repressi.
"Ti devi nutrire"
constatò titubante, ma si costrinse tuttavia a restare stoicamente in piedi sulla porta attendendo un mio cenno, anche se potevo percepire che tratteneva a stento l'impulso di avvicinarsi a me e curarmi con il suo amore, di guarirmi con il balsamo delle sue promesse.

"Ho fame"
mi limitai ad ammettere semplicemente, vinta dai miei bisogni.
"Ed anche tu ti devi nutrire"
Lui annuì e sorrise lievemente, compiaciuto per il mio interesse verso di lui.
"Come desideri nutrirti, mia Signora?"
domandò infine.

Lo guardai inebetita.
Non afferrai subito la necessità di definire questo dettaglio che subito mi apparve ininfluente, poi compresi: nutrirsi dalla carotide sarebbe stata la scelta più immediata e naturale, ma anche la più lasciva e sensuale perché avrebbe significato un contatto fisico intenso e una grande intimità che forse lui pensava io rinnegassi.
O realizzai che forse temeva di non poterla sostenere lui stesso.

"Temi che ti morda troppo forte?"
lo punzecchiai sfacciatamente con un'espressione biricchina.
"In questo caso mi accontenterò di un calice"

Lui mi guardò sornione rilassando i muscoli tesi alla mia inaspettata ironia.
"Temo che se mi mordi il collo non sarai capace di togliermi le mani di dosso, ragazzina"
mi provocò sfrontato inclinando il capo e incrociando le braccia sul petto.
Una ciocca dei suoi lucidi capelli corvini che anelavo disperatamente toccare scivolò accarezzando la sua fronte, sfiorando le sue lunga ciglia.

DUX BRUMAEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora