Capitolo 29

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Failla si morse forte una guancia, arrossendo per via degli sguardi confusi che fate e umani le rivolsero. Mentre seguiva il sacerdote all'interno del palazzo, sentiva i sussurri concitati che nominavano il suo cognome, la sorpresa nella voce tesa, la delusione nel capire che fosse solo la cugina di Gwendoline Ashammer, la mezzosangue reale. Failla cercò di non farci troppo caso, soprattutto perché l'uomo dai lunghi capelli bianchi e la pelle olivastra non sembrava intenzionato ad aspettarla. Inciampò un paio di volte prima di prendere il suo ritmo veloce. Failla si girò verso i giardini solo perché sentì Nyeleti nitrire; lo vide alzarsi sugli zoccoli, agitato, e tirare le redini nella sua direzione. Fu Jadien a prendere in mano la situazione, accarezzandogli il muso e riuscendo a calmarlo.

Failla tornò a fissare la schiena del sacerdote, seguendolo con passo incerto nei maestosi corridoi del castello. Le pareti erano rivestite di una luce soffusa, che si rifletteva sulle gemme incastonate nei loro interstizi e che creava un caleidoscopio di colori sul pavimento di diamante. Ogni suo passo faceva echeggiare il suono cristallino degli stivali, mettendola in imbarazzo. Le fate che incrociavano si giravano infatti nella sua direzione, fissandola senza pudore, e lei sentiva di voler sprofondare ogni volta che i suoi occhi si scontravano con quelli di qualcun altro.

L'uomo non le rivolse più la parola, limitandosi a farle strada. I capelli bianchi erano raccolti in un codino basso ed elegante, che metteva in risalto i lineamenti duri del volto. Non era né vecchio né giovane, la pelle priva di rughe ma gli occhi argento autoritari e custodi di una profonda e antica conoscenza. Tutte le streghe avevano quel fascino? Failla si sentiva profondamente a disagio nel seguirlo; non sapeva se per via dell'aura che il sacerdote emanava o se perché le manette di ossidiana non le permettevano di sentire la propria magia. Era come se una parte di sé le fosse stata strappata, quasi come se fosse stata privata di un arto o di un altro ricordo.

Intanto, i corridoi si susseguivano come labirinti, con archi scolpiti che si elevavano verso l'alto. Ogni stanza, ogni salone, presentava mobili abbelliti di pietre preziose e tende di seta intessute con fili d'oro, la luce del sole che penetrava nel palazzo e ne illuminava perfettamente ogni angolo. I lampadari scintillavano come stelle cadenti, accompagnando Failla in ogni corridoio. Il castello di Belval non era minimamente comparabile a quello di Seymour, dove la natura regnava indiscussa. Failla si chiese come avesse fatto a diventare prigioniera di un luogo così bello, in cui nulla sembrava essere fuori posto. Continuò a seguire il sacerdote, che camminava come se la sua presenza fosse per lui irrilevante.

Lo guardò di sottecchi, sentendosi quasi schiacciata dalla sua presenza. Quell'uomo era decisamente uno stregone, da un immenso potere tra l'altro. Failla poteva percepirlo dal modo in cui l'aria circostante si increspava, come se il suo passaggio mettesse in discussione l'ordine naturale delle cose. Ce n'erano poche, di streghe. Come i mutaforma, i draghi, le fate, il piccolo popolo e le sirene, erano state perseguitate durante la Caccia, massacrate e piegate, al punto che le maggiori congreghe avevano lasciato il continente per trovare riparo in Nemeria. Failla si era sempre chiesta come esseri tanto potenti fossero stati uccisi, in che modo la loro magia non era riuscita a sovrastare quella degli umani. Era qualcosa che della Caccia non aveva mai capito: come i mortali erano riusciti a prevalere?

Appena si ritrovarono davanti due imponenti porte, Failla tornò al presente: la sala del trono. Le pareti, alte e maestose, erano rivestite da drappeggi di velluto di un intenso cremisi, ornati con ricami d'oro che raffiguravano storie millenarie. Un tappeto color porpora si snodava lungo il pavimento, conducendo lo sguardo al trono, che rialzato da cinque gradini dominava l'ambiente, ergendosi sul suo piedistallo. Non era in legno come quello del re e della regina di Seymour, ma di puro diamante, maestoso come tutto il resto. Le finestre arcuate erano fiammeggianti vetrate di rubino che proiettavano una luce rossastra negli interni. Da una parte si poteva intravedere la capitale e dall'altra il mare orientale, le barche lontane che solcavano le onde. Le fiamme danzanti dei lampadari creavano giochi d'ombra nelle nicchie decorate che circondavano la sala, ai lati di cui colonne imponenti si innalzavano verso il soffitto. Gli stemmi delle nobili casate erano incisi su di esso, testimoni del passato di Ariestria, della sua fondazione e della sua storia. Lo dipingevano scene celesti: divinità che si libravano tra le stelle, figure dai volti indistinti che trasudavano forza e potere.

The Songs Of The Twin FlameDove le storie prendono vita. Scoprilo ora