Capitolo 19

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Crilin
(Il passato di Gabriel)

Passarono tre giorni e due notti, girammo per le città e per i paesi, ancora nessuna traccia di Gabriel.
Eravamo esausti, sfiniti, senza chiudere occhio da giorni. Scendemmo in un bosco nascosto, con una sola stradina che ci avrebbe portati in un paesino abitato da pochissimi umani.

Chiusi le ali e nascosi la spada, cercando di non dare nell'occhio, e gli altri fecero lo stesso. Ci saremmo fermati per breve tempo: finché la notte non fosse iniziata.

Volammo per tre giorni senza riposarci e stando tutto il tempo sotto il sole, è quello aveva causato non pochi problemi a noi schiavi.

"Riposate, Casaletto vi ospiterà". Un'insegna catturò la mia attenzione: era un rifugio distrutto, con una parte del tetto mancante e una parete che perdeva mattonelle. C'erano due finestre ad ogni lato della casa, con i vetri rotti e le tende color beige che davano sul nero per colpa della sporcizia. Era tutto un vedere schifoso: chiunque si sarebbe nauseato a quella visione, ma per noi al momento era la soluzione migliore.

«Ci fermeremo qui, e appena la luna salirà continueremo la ricerca», avanzai verso la porta, «mi raccomando: non dobbiamo attirare l'attenzione, non abbiamo tempo per sterminare nessuno», mi voltai a fare un'ultima raccomandazione.

Entrai nel portone di legno, che a momenti sarebbe caduto a pezzi per quanto fosse marcio e disintegrato. L'atrio era ampio e visto da fuori non dava proprio l'idea di un posto così grande. C'era un bancone a destra con dietro di esso un uomo anziano: basso e robusto, che portava un grembiule bianco sporco di manate nere, e un jeans attillato che faceva vedere le grandi cosce attaccate, le quali sembravano due salsicciotti.

Dall'altro lato della stanza c'erano dei tavolini con le apposite sedie, stranamente intatte, forse perché mai usate. C'era un divano rosso sbiadito a due posti, con accanto una poltrona dello stesso colore, rotta e talmente sporca che sembrò essere diventata di colore marrone. Davanti alla porta d'entrata, proprio nel centro della stanza, c'era una scalinata in legno, con gradini intatti e altri rotti, e la ringhiera di ferro con lo scorri mano ormai arrugginiti.

Non c'era neanche l'ombra di una persona oltre noi e l'uomo dietro al bancone. Neppure un pazzo, un ubriaco o un barbone. Nessuno si sarebbe fermato in quel posto. Volavano mosche e ogni tipo di insetto, e c'era un odore di marcio e ammuffito.

«Posso aiutarvi?» L'uomo uscì dal bancone zoppicando e venne verso di noi: ci guardò ad uno ad uno, rimanendo immobile aprendo e chiudendo gli occhi di continuo: colpa sicuramente di un tic.
«Una stanza», tuonai con freddezza.
«Solo una per tutti voi?! Siete in troppi per stare in una stanza, massimo due persone possono starci», rise, beffandosi di me.

Lo fulminai con lo sguardo e mostrai la spada da sotto il cappotto nero. L'uomo sbiancò e fissò la spada, capendo di aver deriso le persone sbagliate. Sette contro uno? Era decisamente in svantaggio. Lo era in qualsiasi caso: anche uno contro uno. Sorrisi, divertito dalla sua reazione spaventata.

«Ha detto solo una stanza!» Ray: lo schiavo più giovane del gruppo, si intromise ringhiando contro di lui facendo sì che indietreggiasse.
«Si, subito!» Andò veloce dietro al bancone a prendere la chiave.

Nell'attesa, mi voltai verso Ray. Lo fulminai davvero innervosito dal suo comportamento.
«Non dobbiamo attirare l'attenzione, quale di queste parole non hai capito?» Strinsi i denti, trattenendo il desiderio di ammazzarlo all'istante.
«Scusami», abbassò la testa.
«Ecco la sua chiave, signore», la voce dell'uomo tremò e così anche le sue mani.

Presi la chiave e feci andare avanti gli altri. Li seguii, ma prima di andare mi misi accanto all'uomo e mi avvicinai al suo orecchio.

«Il mio nome è Crilin», sussurrai con delicatezza, ma con una tale freddezza che si spalancò anche il portone. Entrò un'aria gelida assieme alle foglie che finirono davanti ai suoi piedi. Lo guardai divertito, notando il terrore nei suoi occhi, e salii.

Quella stanza era un orrore. Piccola, sporca e piena di ragnatele ovunque. C'era un letto misero con delle lenzuola sporche, che da bianche erano diventate gialle, come se fossero marcite. C'era un armadio con una sola anta color noce scuro, che puzzava di chiuso, una piccola scrivania accanto con una gamba rotta e la sedia buttata a terra, fatta in mille pezzi. La finestra era rotta, proprio come si vedeva dall'esterno, le pareti erano grigie, e la muffa regnava ad ogni angolo.

«Mio amore, ti ho cercata in lungo e in largo, per paesi e città, senza trovarti mai. Sono arrivato in questo paese, dove niente e nessuno sapeva della tua esistenza. Ho implorato ogni giorno il Signore: chiedendo di condurmi da te. Ho pianto ogni notte: sperando di poterti trovare al più presto, di rivedere i tuoi occhi, ma non sono stato accontentato», Ray iniziò a leggere una lettera raccolta da terra, e tutti gli diedero attenzione.

Sapevano davvero perdere tempo in stupidaggini. Gaurdai fuori dalla finestra e vidi la luna splendere nel cielo scuro. Finalmente quelle ore di attesa, in quel posto putrido e piccolo, erano terminate.

«Purtroppo, un giorno una signora anziana venne a trovarmi in questo rifugio, dove una notte decisi di alloggiare per poter riposare e recuperare le forze, così da continuare la tua ricerca. Mi disse che le era arrivata voce che un giovane stesse cercando la sua amata. Non ho mai saputo chi fosse o come sapesse lei di te, ma so che mi diede la notizia più brutta della mia misera vita. Disse che la donna che più amavo, anche più della mia stessa esistenza, era morta. Tu eri morta. Uccisa proprio come tutti gli altri abitanti del paese. Non riuscivo a credere a quelle parole, non potevo averti persa per sempre. Quegli assassini, bestie senza cuore, ti hanno portata via da me, dal nostro amore, e l'unica cosa che mi rimane da fare è seguirti. Perché, Elisz Riphort, mia amata, non potrò mai continuare a vivere senza di te. A presto. Per sempre tuo, Ron», Ray sputò a terra nauseato.

«Che razza di cosa schifosa è mai questa?» Oliver gliela strappò dalle mani e la guardò, «sono solo degli umani deboli e patetici», la stracciò, facendola a pezzettini.
«Almeno siamo in quella lettera, se fosse ancora vivo gli farei vedere di persona la bestia e l'assassino che sono», Hunter si intromise.
«Magari l'ho uccisa proprio io questa amata», Ray rise di gusto.

«Ora basta!» Colpii l'armadio e si voltarono tutti a guardarmi con timore. «Non siamo qui per queste stronzate!»

«Crilin», Ray avanzò verso di me.

«Osa a dire un'altra parola e ti taglio la lingua!» Andai a pochi centimetri da suo volto, sfidandolo a continuare. «E' ora di andare a fare ciò per cui siamo venuti», tuonai davvero innervosito. Aprii le ali e spalancai la finestra. «Portiamo Gabriel a Derrien», mi innalzai, seguito da tutti gli altri.

Andammo avanti per ore, passando sopra a paesi mai esplorati, case mai distrutte, umani mai uccisi, e promisi di ritornarci quando tutto ebbe fine: quando Gabriel fosse nelle mani di Derrien. Fino a quel momento, non ci sarebbe dovuta essere nessuna distrazione.

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*nota autrice*
Domani pubblicherò un nuovo capitolo ❤️‍🔥

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