Capitolo due

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Alcuni posti, quando li visiti per la prima volta, lasciano in te una traccia che ti spinge a tornare lì. A volte, questo bisogno di tornare non viene instaurato basandosi sulla bellezza del posto in sé, ma semplicemente su di un'emozione che esso ci ha lasciato.

Io, in quel campo di grano incolto, la prima volta ci avevo trovato un rifugio, un posto dove poter scappare da quella società che sa dei tuoi problemi, ma che fa tutte le mosse più sbagliate per farteli tornare alla mente. Ma, soprattutto, lì avevo trovato un modo per pensare a mia sorella senza avere alcuna distrazione dal mondo esterno. 

Non è un dettaglio da niente: c'è differenza nel pensare a qualcuno con di sottofondo la gente che parla, una giornata focosa in corso, il traffico delle auto, magari, ed ogni tipo possibile di inquinamento acustico, oltre che visivo.

Quando voglio pensare a Sofia, voglio farlo nella quiete più totale, senza alcuna probabilità di distrazione. Perché, se si deve iniziare una cosa, la si deve anche finire senza interruzioni.

In un sacrosanto rituale, non appena arrivo mi pongo all'ombra del ciliegio, nato e cresciuto al limitare del campo. Non vengo qui da quasi una settimana, e poter stare di nuovo nel mio posto felice mi sembra quasi una liberazione dai miei peccati.

Volgo lo sguardo alla villetta di campagna e, nell'osservarla, subito i miei occhi captano qualcosa di anormale. Sarebbe come vedere la precisione dei volti dipinti da Giotto in un quadro di Picasso. Impossibile. Innaturale. Totalmente sbagliato e fuori luogo.  

Dei movimenti stanno provenendo dall'interno, e la mia mente è così abituata ad associarla ad un luogo abbandonato, che neanche avevo mai preso in considerazione l'idea che qualcuno potesse affittarla.

Non riesco a capire cosa mi stia passando per la testa. Forse è rabbia, o magari semplice preoccupazione. Non voglio essere privata anche di questo. Io ho necessita di questo posto per pensare, perché -secondo i miei criteri- ha tutto ciò che cerco.

Ma in questo momento voglio solo calmarmi, prima di poter compiere quello che, ormai, è diventato il mio rituale.

Dal telefono faccio partire Five Minutes Alone dei Pantera, una delle canzoni che mi accompagna da tutta la vita. Sin da piccola mio padre ha tentato di farmi entrare nel mondo del metal, e devo dire che è riuscito nel suo compito. Certo, questa canzone l'ho sentita e risentita, ma rimane una di quelle che non riuscirebbe a stancarmi neanche dopo ore di ripetizione continua. 

Secondo qualche credenza sbagliata, il loro sound dovrebbe incrementare la mia rabbia, ma non è affatto così. Non per me, almeno. Ad ogni accordo, ad ogni colpo di grancassa, ad ogni singola nota tutte le mie emozioni si liberano nell'aria, e in me rimane solo quella strana sensazione di voler essere ancora felice. Quasi non la sento più mia, ma so che, da un po' di tempo a questa parte, sta premendo per poter uscire allo scoperto. Non so se è ciò che voglio, ma non so davvero né come fare a reprimerla, né come aiutarla a risorgere.

Mentre la voce di Phil mi rimbomba nelle orecchie, mi perdo a guardare ciò che ho davanti.
I fili di grano sono stati tagliati dalla mietitura, perciò rimangono solamente le basi degli steli senza vita, mossi da una brezza leggera; qualche stormo di rondini che passa ogni tanto sopra alla mia testa. Guardarle volare, mentre cinguettano il loro canto di ribellione, beh... credo sia una di quelle cose da inserire come ottava meraviglia del mondo. 

Da piccole io e mia sorella le guardavamo sempre assieme al nonno, ci distendevamo su un semplice prato e le seguivamo ammirati con lo sguardo. Tendevo, e tutt'ora tendo ad associarle alla libertà, cosa che ho sempre ricercato.

In questo mondo, seppur più libero rispetto ad un tempo, mi sento comunque chiusa in gabbia. Controllata da chi è più importante di me, piegata sotto delle inutili leggi che, secondo qualcuno, sono importanti per il quieto vivere. Tutte cazzate, penso io. La nostra è una vita sprecata: all'insegna del lavoro e dei soldi, e mai all'insegna della vita stessa.

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