Capitolo trenta

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"Alcuni dicono che la pioggia è brutta, ma non sanno che permette di girare a testa alta anche con il viso coperto dalle lacrime."

-Jim Morrison


JAMIE'S POV 

Ci sono assenze che sono capaci di cambiare una persona nel senso più stretto del termine. 

Preoccupazioni che in passato a mala pena si consideravano, diventano pensieri fissi, incancellabili, inaccettabili.  

Prima stavo passeggiando. Mi ero preso un po' di tempo per me in cui potessi "tirare le somme" e riflettere su tutto ciò che sta accadendo. Poi, senza che potessi fare nulla, ho alzato lo sguardo, e lei era lì, bellissima ed irraggiungibile. 

Il suo sguardo non ha mai incrociato il mio, non si è mai accorta della mia presenza, né l'ha mai neanche solo intuita. 

Come di consueto, era accompagnata da Erika e dal ragazzo dai capelli scuri. 

Per la prima volta dopo tanto l'ho vista sorridere, sorridere davvero, e in quel momento mi sono mancate le forze. Chiamatelo egoismo, o come diavolo volete, ma sapere di non essere stato io la causa di quel sorriso ha allargato il vuoto già troppo grande presente nel mio petto.

Una volta ero stato io la ragione di quel sorriso, ero stato io l'artefice del suo ritorno alla felicità, e lei non ha mai smesso un solo giorno di ricordarmelo.

Sono rimasto lì, fermo, completamente distaccato dal resto del mondo. Ero consapevole solo delle lacrime che minacciano di uscire, dovute alla frustrazione, del senso di vuoto che sentivo fin dentro alle ossa e del fatto che, proprio dall'altra parte della strada, c'era tutto ciò che desideravo, tutto ciò per cui avrebbe valso la pena di battermi. 

Tra me e lei, però, sembrava esserci un muro invalicabile. Mi sono trovato costretto a limitarmi a sognarla, a ricordare com'era essere dall'altra parte del muro, dove la malinconia, lo strazio e la paura di non poterla più avere per me, erano solo un qualcosa di talmente tanto astratto da rasentare l'assurdo.

Non ho potuto fare nulla, e mi sono dovuto limitare a guardarla passare, come nelle sfilate, o come quando si osserva il sole dai sedili anteriori di un'auto, muovendo il capo da una parte all'altra, in silenzio; quando le porte del treno sono già chiuse e tu sei sul penultimo gradino del binario, o quando, in una piovosa domenica di ottobre, non ti resta che camminare perché la macchina è dei tuoi, e il bus lo vedi solo a duecento metri dalla fermata, che ti passa davanti, incurante dei tuoi ritardi.

I secondi passavano, e in quell'arco di tempo non si è mai accorta di me, ha semplicemente continuato a camminare seguendo il marciapiede, diretta verso la sua meta, senza tener conto che in quel momento, non diversamente dal solito, avevo un bisogno malato di averla con me; ignara del fatto che, se solo me lo avesse permesso, la avrei salutata, abbracciata, baciata, ci avrei fatto l'amore ancora una volta, o l'avrei accompagnata tenendola per il cuore ovunque lei volesse, anche lontano da me.

Esattamente come è arrivata, se n'è andata via, in un attimo. Mi è sembrato quasi uno scherzo del destino, che si è divertito a porgermi la felicità da me tanto ricercata davanti agli occhi, per poi riportarmi alla realtà, ricordandomi di non poterla avere, quella felicità.

Ora me ne sto andando, sto tornando a casa, cercando di togliermi dalla mente la sua immagine. Tutto però mi ricorda lei, anche le cose più insignificanti.

L'unico rumore udibile, è il riecheggio dei miei passi sull'asfalto bagnato e usurato, deboli suoni che scandiscono i secondi. 

E tutto questo silenzio fa solo gridare i miei pensieri più forte.

Nient'altro che teDove le storie prendono vita. Scoprilo ora