Capitolo quarantasette

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«Ma fa sempre così freddo, qui?» mi lamento, stringendomi nel cappotto, e tirandomi ancora più giù il berretto di lana. «Voglio dire, ormai siamo in aprile, e non smette un solo secondo di nevicare da ben tre giorni» faccio notare, guardando mia madre di sbieco.

Come ha fatto a sopportare questo clima per tutti gli anni in cui è rimasta qui? Io avrei dato di matto.

Se ne sta seduta accanto a me, con le gambe accavallate, le mani in tasca, gli occhi chiusi, e il volto rivolto verso il cielo, in un'espressione fin troppo rilassata, almeno dal mio punto di vista.

Sembra quasi che stia prendendo il sole, in un luogo totalmente diverso da quello in cui ci troviamo ora.

«Non fa così freddo» risponde con tono pacato, aprendo solo un occhio per potermi guardare.

«Non dire cazzate, la temperatura è costantemente sotto lo zero!» constato, allargando le braccia per evidenziare il fatto.

«Con il tempo ci si abitua, ormai ho imparato a non farci più caso» ribatte lei, rivolgendomi un piccolo sorriso, e facendo poi un'alzata di spalle.

«La verità è che sei strana, ma non lo vuoi ammettere» le dico, fermamente convinto delle mie parole.

«E che vita sarebbe senza un po' di pazzia? Farebbe veramente schifo, e poi, non venirmi a fare questi discorsi proprio tu, che sei quasi più matto di me». Subito si mette a ridere, ed io la seguo, perfettamente d'accordo con lei.

Da quando ha rivisto Grace, dopo tutti quegli anni lontana da lei, non l'ho vista ridere spesso. Ora che invece sembra così spontanea, fa sentire più felice anche me.

«Quel è la pazzia più grande che hai fatto?» le chiedo dopo un po', curioso di sapere fino a che punto si è spinta.

«Oddio, fammici pensare... » dice, mettendosi a sedere più dritta. La guardo portarsi le mani alle tempie, come se quel gesto potesse aiutarla a ricordare meglio. «Oh, sì! Questa vince decisamente su tutte!» esclama con tono esaltato, cercando subito dopo di soffocare una risata..

«Raccontamela, allora» le dico, sorridendo alla vista di tanta felicità da parte sua.

«Allora, all'epoca avevo sedici anni, se non ricordo male. Io e una vecchia amica del liceo, Heather, ci eravamo accorte che in segreteria, i bidelli tenevano una copia della chiave d'ingresso, ed una chiave universale per tutte le aule dell'istituto; sai, nel caso avessero dovuto perdere quella che tenevano sempre con loro. Un giorno decidemmo di rubarle entrambe, e al loro posto mettemmo due vecchie chiavi, che servivano ad aprire la cantina di casa mia, perché non si accorgessero della sparizione delle originali. La notte dopo, io, Heather, e un ragazzo con il quale frequentavo dei corsi, entrammo di nascosto, e aprimmo anche tutte le aule» fa una pausa, per controllare di avere la mia attenzione.

Ha una luce negli occhi che potrebbe illuminare l'intera città.

«Questo ragazzo, Joey, aveva una specie di piccola fattoria, a casa, nella quale teneva anche dei pony. Decise di prenderne uno, e di portarlo all'interno della scuola. Gli lasciammo delle carote, dentro, e anche un po' d'acqua, nel caso ne avesse avuto bisogno. Rimettemmo le chiavi al loro posto, io mi ripresi le mie, e poi uscimmo, lasciando tutto aperto. Avresti dovuto vedere la faccia degli insegnanti quando hanno trovato il pony in atrio, è stata la cosa migliore che io abbia mai visto! Poi per riprenderlo è stato un disastro, continuava a scappare dentro alle aule e a rovesciare i banchi!» finisce di raccontare, scoppiando poi in una risata fragorosa che non riesce più a trattenere, alla quale mi aggiungo anche io.

«No, non posso credere che tu abbia fatto questo! Davvero, non posso!» le dico, portandomi entrambe le mani a coprirmi il viso, sul punto delle lacrime.

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