Capitolo quarantotto

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 «Ma... » comincia a dire, aggrottando la fronte. «Mi sembra... mi sembra di averlo già visto».

Sta squadrando il quadernino con un'espressione corrucciata. Lo gira da ogni angolazione possibile, forse per verificare ciò che ha appena detto.

Alzo un sopracciglio, non capendo come possa mai averlo visto da qualche parte.

«E dove?» le chiedo, avvicinandomi un po' di più a lei.

«Forse... no, non può essere. Cancella quello che ti ho detto, mi devo essere sbagliata per forza» dice subito dopo, per poi scuotere la testa.

La vedo sfogliare in fretta qualche pagina, senza realmente leggere ciò che vi è scritto sopra. Chiude il libro, e me lo riconsegna in fretta.

«Non vuoi darci un'occhiata? Pensavo fossi fissata, con Shakespeare». Quella che ha per i suoi scritti, è una vera e propria mania, e mi sembra strano che non voglia perdere nemmeno cinque minuti del suo tempo per poter guardare questa meraviglia.

 In fondo, quando le potrebbe ricapitare di avere sotto gli occhi una copia de "Il Mercante di Venezia" scritto interamente a mano, quasi due secoli fa?

«Magari dopo, adesso ho un po' di mal di testa. Se mi mettessi a leggere ora, sicuramente mi peggiorerebbe» mi risponde portandosi una mano alla tempia, mentre a me continua a sembrare una scusa bella e buona.

La Anne che conosco io non avrebbe mai lasciato ad una semplice emicrania di mettersi in mezzo tra lei ed un'opera del suo autore preferito. Mai.

«Farò finta di crederti, ma solo per questa volta» le dico, avviandomi poi verso la porta della cucina. La sorpasso, per poi andare verso le scale che portano al piano di sopra.

Salgo gli scalini di parquet due alla volta, mentre li sento scricchiolare sotto i miei piedi. Entro in camera, chiudendomi poi la porta alle spalle.

«Austin Bennet, cosa cazzo stai facendo?!» quasi urlo, quando lo trovo disteso sul suo letto, intento ad armeggiare con il mio telefono.

Se ne sta sdraiato a pancia in giù, una mano a sostenere la testa, e nell'altra ciò che non avrebbe dovuto prendere.

Sono estremamente geloso delle mie cose, soprattutto se si tratta del cellulare. Non sopporto quando qualcuno tenta di guardare cosa sto facendo o, ancora peggio, quando lo vogliono usare senza il mio consenso. La privacy, per me, è tra le cose più importante.

Lo avevo lasciato qui, perché pensavo non mi sarebbe servito, e di certo non era mia intenzione di abbandonarlo nelle grinfie di quella piccola Cicala.

«Sto cercando di scoprire la password, è un bel passatempo quando ci si annoia» mi risponde calmo, come se niente fosse.

«Mettilo giù, che così lo blocchi!» gli ordino, e lui si ferma a guardarmi con un sopracciglio alzato.

«Sei un rompipalle, lo sai, vero?»

«Sei la seconda persona che me lo dice in appena dieci minuti, quindi sto cominciando ad avere dei sospetti» gli rispondo, per poi allungare la mano libera verso di lui. Vi posa sopra il telefono, e io gli rivolgo un mezzo sorriso, grato del fatto che non abbia opposto troppa resistenza.

«Cos'è quello?» mi chiede subito dopo, indicando il libro.

La sua curiosità sa essere pericolosa, a volte anche troppo.

«Una cosa che non devi assolutamente toccare» gli rispondo categorico. Non deve nemmeno avvicinarvisi, a questo.

«E chi me lo vieta?» chiede subito dopo, mettendosi a sedere dritto, e incrociando le braccia al petto.

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