Capitolo trentasette

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«Ma che cazzo si è fumato il pilota, prima di atterrare?» chiedo, ancora sconvolto dall'atterraggio. 

Dire che è stato traumatico, è un vero e proprio eufemismo. Se avessi guidato io, probabilmente sarebbe stato meglio, il che è tutto dire.

«Faresti prima a chiederti cosa non si è fumato» ribatte mia madre, facendo una smorfia al solo pensiero. 

Io per tutta risposta rido, pienamente d'accordo con lei.

Prese le valige, ci allontaniamo dai nastri, e cominciamo a cercare l'amica di mamma che dovrebbe venirci a prendere. 

Dopo non molte ricerche, penso di averla individuata, dato che mia madre si sta fiondando nella direzione di una signora con la testa china, intenta a leggere per passare il tempo.

A prima vista sembra una persona davvero particolare, una vera e propria catapulta negli anni Quaranta.

I capelli color mogano, raccolti in minima parte dietro alla nuca, formano delle morbide onde fino alle spalle. Porta degli occhiali a goccia dalle lenti spesse, che danno un po' di carattere al suo viso dalle linee dolci.  Le labbra, invece, sono dipinte di un rosso molto acceso. 

Sotto la giacca squadrata, indossa una semplice camicia bianca, stretta in vita da una gonna, che va allargandosi fino a poco sotto al ginocchio. 

Ma non ha freddo? Da quello che ne so, ad International Falls in questo periodo dell'anno ancora nevica.

«Martha!» urla mia madre, correndole incontro. 

Lei alza subito la testa dal libro e, non appena scorge chi l'ha chiamata, fa uno scatto per andare a salutarla. Le due si abbracciano per un tempo lunghissimo, ed entrambe scoppiano a piangere. 

Mi fa tenerezza vederle così, il bene che si vogliono è palese, ed il fatto che dopo tutti questi anni ancora si cercano, la dice lunga. 

Mi sento un po' a disagio, un terzo incomodo. Me ne resto lì accanto, continuando ad osservarle immobile, senza dire nulla.

«Oh mio Dio, ma quello è Jamie?» chiede dopo un po' Martha, indicandomi. 

Ha un'espressione stupefatta, che subito dopo copre, portandosi le mani davanti alla bocca.

«Era da tanto che non lo vedevi, eh?» le chiede mia madre, posizionandosi accanto a me. 

Si passa i pollici sotto gli occhi per eliminare le lacrime, per poi farmi una carezza sulla schiena, rivolgendomi uno sguardo carico di orgoglio.

«Quanto sei cresciuto! L'ultima volta che ti ho visto avevi due anni, avevi cominciato da poco a camminare e non facevi altro che correre per tutta la casa. Tua madre ti chiamava "il degno erede di Satana"» mi racconta, scoppiando a ridere al solo ricordo.

Non mi ricordo di averla mai conosciuta, ero troppo piccolo per conservarne alcuna immagine precisa. 

Certo, ogni tanto la sento nominare da mia madre, ma sempre in maniera molto vaga. 

L'unica cosa che riesco ad associare a questa donna, è un affresco. Nella casa dove abitavo prima ce n'era uno in salotto che era stato fatto da lei, così mi era stato raccontato.

«Non ero iperattivo, ero solo... un bambino felice» le rispondo, ridendo, non trovando di meglio da dire. 

Guardo mia madre, e la vedo alzare gli occhi al cielo, cominciando a ridere subito dopo.

«Ma va' a raccontarla a qualcun'altro! Eri un demonietto che distruggeva qualsiasi cosa, a volte avrei voluto strangolati, o magari metterti al rogo, sul serio!» mi dice, puntandomi un dito contro. 

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