Capitolo 41

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Anche con due porte chiuse e con metri e metri di distanza, le urla di Dimitri si sentivano. Mi scuotevano nel profondo e mi ricordavano il mostro che ero. Ero stata io a volere tutto questo.
Nascosi la testa nella braccia, dopo essermi rannicchiata contro il muro nella stanza dove la ragazza mi aveva, non esattamente con dolcezza, portata. Mi abbracciai le gambe, piegate, al petto e lasciai che altre lacrime calde e amare mi rigassero il viso.
Che altro avrei potuto fare?
Non da subito, ma, da qualche parte, qualcuno cominció a muoversi. Era una sensazione che sentivo solo io, perché sapevo che, attorno a me, non c'era assolutamente nessuno, se non la ragazza e i due uomini di guardia, fuori dalla porta. Era come se non fossi piú sola. C'era qualcuno, con me. Forse, era solo il peso dei miei ricordi e delle mie colpe.
Poi, udii indistintamente anche dei passi veri, concreti, che si avvicinavano a me. Si fermarono appena davanti ai miei piedi, poi sentii che qualcuno mi toccava il polso, delicatamente, sfiorandolo appena, come per paura che la mia si rompesse. A dire il vero, avrei potuto rompermi non solo nella pelle, ma in tutta me stessa. Quel tocco delicato mi allevió appena il dolore, sia fisico sia interno.
Poi, sentii che quella mano mi prese la mano, che tenevo stretta al gomito, nascondendomi il viso, e la strinse, intrecciando le dita alle mie. Non osavo alzare lo sguardo, ma avvertii chiaramente la pelle di una donna e le dita affusolate ben curate.
Alzai, allora, il volto, preoccupata che quella donna potesse farmi del male, come lo aveva appena fatto a Dimitri, in pochi secondi.
Gli occhi della ragazza erano fissi sulle nostre dita intrecciate, ad osservare le curve delle nostre dita affusolate, le unghie, le pieghe delle mani, tutto di cosí simile, da apparire strano. Fin troppo strano.
La sua bocca di piegó in un sorriso, sovrappensiero.
Vedere quella ragazza, quell'essere cosí simile a me, mi portava un'inquietudine fortissima, ma, allo stesso tempo, mi regaló una gioia immensa, come se mi avessero appena fatto un regalo atteso da tempo. Un tempo che andava al di là della memoria, un tempo che garantiva la mia stessa esistenza.
Provai un brivido di adrenalina e la mia mano si strinse sulla sua, facendole sollevare lo sguardo, sorpresa.
Quando i nostri occhi si incontrarono, fu come se mi avessero appena ricolmato del vuoto che avevo avvertito fino ad allora.
Tu sai chi sono, avvertii, nella mia testa, una voce estranea, dolce e morbida come quella che avevo sentito nel bosco e a casa mia e che aveva continuato a chiamarmi, per giorni.
Qualcosa si mosse di nuovo, dentro di me, non sapevo dire cosa. Era una sensazione piú forte, rispetto alle precedenti, che non riuscivo a controllare.
La ragazza abbassó lo sguardo sulle mi gambe, interrompendo il contatto visivo, e inarcó un sopracciglio, confusa.

"Che cos'è quella cosa?" chiese, con un tono acido e sospettoso.
La voce, peró, era la sua: dolce e morbida, come quella che sentivo nella testa.
Pian piano, troppo piano, per i miei gusti, collegai i pezzi di un puzzle confuso.

"Sei tu." mi scappó, sussurrato.
Lei riportó lo sguardo su di me, curiosa, ma sempre confusa.
"Sei tu la voce nella mia testa." continuai, sussurrando.
Sembrava un'affermazione, ma, in realtà, voleva essere una domanda.
La ragazza non reagí subito, ma rimase a guardarmi negli occhi, con i suoi ridotti a due fessure.
Poi, quando capí ció che le avevo detto, li spalancó e scattó in piedi, mollandomi la mano, che ricadde, inerme, al mio fianco.

"Finalmente!" esclamó, con un sorriso di gioia sincera che le illuminava il volto pallido.
Finalmente...cosa?
Ora, ero io quella confusa.
Piegai la testa di lato, cercando di farle capire che io non stavo capendo.

"Scusa, non capisco." esplicitai, mentre lei correva verso un tavolo di legno, di fronte a me, pieno di fogli.
Lei frugó tra quegli scritti freneticamente, come se avesse appena trovato la risposta ad un problema senza soluzione.

"Sí, sono io." annunció, una volta che si fu girata, con, in mano, dei fogli di carta.
Senza aspettare una mia risposta, riportó lo sguardo su quei fogli e cominció ad esaminarli attentamente. Ogni tanto, la treccia rossa le ricadeva sui fogli, quindi le la ricacciava dietro le spalle, senza prestarci troppa attenzione.

"Non capisco." mormorai, sperando in una qualche frase, da parte sua, di senso compiuto.
Non mi aveva detto niente, se non frasi misteriose e che mi facevano venire ancora piú dubbi, uno piú insistente dell'altro.

"Oh, capirai in fretta." mi assicuró, senza neanche guardarmi.
"È notevole che tu sia arrivata fin qui senza che ti dicessi quasi niente. Davvero, notevole." alzó lo sguardo verso di me, meravigliata.
Ora, sí, che ero confusa: che cos'avevo fatto, di tanto particolare?
"Stacey, sbrigati e fa' ció che ho detto." ordinó.
La porta si spalancó, senza troppi complimenti, dal fondo della stanza, vicino a me, e dalla soglia entró la bionda ossigenata che non sopportavo.
Quando mi vide, sorrise.

"Vediamo di fare un bel lavoro." mormoró, con un sorriso che non prometteva niente di buono.
Sarei dovuta scappare da lí.

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