Capitolo 70: Danneggiato

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Appoggio le borse della spesa sulle travi di legno del piccolo patio antistante la porta d'ingresso e tiro fuori dalla borsa le chiavi per entrare

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Appoggio le borse della spesa sulle travi di legno del piccolo patio antistante la porta d'ingresso e tiro fuori dalla borsa le chiavi per entrare. È mattina, il cielo è limpido e l'aria frizzante testimonia la pioggia fine che deve essere scesa questa notte; in lontananza si intravedono nuove nuvole pronte a portare un altro temporale in giornata.

Solitamente non mi sveglio all'alba, a meno che non sia di turno sull'ambulanza. Tuttavia, dal momento che ho praticamente passato la notte in banco, mi sono alzata dal letto e ho deciso di uscire presto per andare al supermercato. Mitchell dormiva ancora e pareva tranquillo, nonostante questa notte l'abbia sentito dimenarsi un paio di volte tra le lenzuola, forse a causa di qualche incubo.

La luce del giorno ha ormai inondato la casa e, dalla rapida occhiata che getto verso il letto disfatto in camera, intuisco che Mitchell deve essersi alzato. "Sono tornata" dico, mentre trascino le pesanti sporte verso la cucina, lamentandomi per i segni che mi hanno lasciato sulle dita durante il tragitto a piedi. "Mitch, potresti anche aiutarmi" brontolo senza fare troppo sul serio. Quando tuttavia non avverto alcuna reazione, inizio a preoccuparmi. Lascio la spesa sul tavolo della cucina, attraverso il salotto e con passi quatti mi avvicino alla camera da letto che, come sospettavo, è vuota. "Mitch?" chiamo, mentre mi affaccio alla porta del bagno.

Lo vedo lì, fermo immobile davanti allo specchio, mentre fissa il proprio riflesso senza vederlo davvero. È scalzo e a torso nudo, indossa solo un paio di pantaloncini da basket. Stringe saldamente i bordi del lavandino, tanto che le nocche delle dita sono diventate bianche. I muscoli contratti lasciano intravedere le vene in superficie. La mascella è rigida e i lineamenti del volto sono tesi. Non mi muovo dalla soglia e trattengo il respiro, quasi ci trovassimo in equilibrio precario su un filo sottilissimo e invisibile e bastasse un alito di vento a farci precipitare entrambi, a mandare tutto sotto sopra. Percepisco l'ansia spasmodica che lo deve attraversare in questo momento e che lui sta trattenendo per evitare che travolga tutto ciò che lo circonda. Forse preferisce che annienti lui solo.

Infatti, con uno scatto folle e improvviso, Mitch sbatte la testa contro il vetro dello specchio con una violenza che mi lascia terrificata. "Mitch!" grido spaventata. Il panico mi assale e per una frazione di secondo mi sento paralizzata. Per fortuna la mia capacita di reazione subentra e cosi mi precipito verso di lui. Quando Mitchell solleva il capo, la fronte è attraversata da un taglio orizzontale da cui cola una cospicua quantità di sangue che inizia ad imbrattargli il volto. Lui resta a fissare lo specchio infranto davanti a sé, sporco del suo stesso sangue.  "Ma che fai?!" ansimo angosciata e provo a prendergli il volto tra le mani, per farlo voltare e guardarlo in faccia. Mitch non oppone resistenza, mi lascia fare, come un bambino inerme tra le mie braccia. Non sono sicura che prima si fosse davvero reso conto della mia presenza né so quanto lucido possa essere in questo momento.

Lo faccio sedere sul water e la sua espressione indifesa mi attraversa. Senza proferire parola, gli scosto i capelli dalla fonte, faccio scendere l'acqua gelida dal lavandino, lavo la ferita con un asciugamano, la disinfetto e la medico, ma ritengo comunque sia necessario recarci al pronto soccorso, soprattutto per escludere ematomi celebrali interni, considerata la brutalità di quel gesto. Quando glielo dico, Mitch si rifiuta, ma non oppone una resistenza aggressiva, resta semplicemente irremovibile. "Danneggiato lo ero già. Il mio cervello è marcio, guasto più guasto meno" commenta con disprezzo verso se stesso. Si accontenta della garza con cui copro la ferita una volta che il sangue ha smesso di fuoriuscire.

Sono ancora sconvolta per la violenza di quell'atto improvviso e autolesionista, per la rabbia viscerale con cui Mitch ha colpito se stesso, per l'odio disgustato che traspariva dalla sua espressione mentre si osservava. Sono terrorizzata dall'idea di ciò che potrebbe averlo spinto a fare una cosa del genere. Mitch potrà anche sembrare un pazzo, ma non merita tanto male, perché la sua follia è in realtà disperazione.

Mi inginocchio davanti a lui, restando in equilibrio sulle punte dei piedi, e gli prendo le mani. "Perché lo hai fatto? Cosa ti ha spinto? Che ti è passato per la testa?" gli chiedo preoccupata. Lui risponde con una risata falsa, amara e tagliente: "L'unico modo per non distruggere tutto ciò ho intorno è distruggermi da solo. Forse è questo il punto: l'unico modo per non ferire te è ferire me stesso" sentenzia sconfitto, con una voce così piena di afflizione che mi impressiona. "Ma che dici?" mormoro tra me, sollevandomi e abbracciandolo. Lui però non si abbandona a lungo alla stretta con cui tento di rassicurarlo. È irrequieto, si divincola e si alza per uscire dal bagno.

"Vado al Bar, devo vedermi con alcuni dei ragazzi" accenna schivo, come se niente fosse, dandomi le spalle. "Cosa?" chiedo scandalizzata. Ecco che ci risiamo! Torna tutto esattamente come prima che sparisse; ora capisco il suo nervosismo. "Mitch, di nuovo?! Vai a scommettere? Ti sei già giocato la vincita della motocross e devi qualcosa a qualcuno?" Adesso sono io a perdere la lucidità; innesco nuovamente il circolo vizioso e tossico che mi spinge ad assalirlo con le mie paranoie e che porta lui a reagire con brutalità, rendendoci la valvola di sfogo l'una dell'altro.

Mitch infatti scatta, si volta e alza le mani esasperato: "Eccoci, brava! Non aspettavi altro, vero?! Attendevi solo che io tornassi a commettere un errore per potermi dare addosso. Dimmi che sono un incapace deficiente, forza dimmelo!" grida, senza nemmeno provare a negare le mie supposizioni.

Mi metto le mani sui fianchi e scrollo il capo, facendo respiri profondi per calmarmi. "Guarda come sei ridotto, Mitch! Devi darti una regolata. Io sono disposta ad aiutarti, ma tu ci devi mettere del tuo, perché onestamente al momento mi sembri in caduta libera e non ho intenzione di finirci trascinata anche io." La voce mi trema, nonostante tenti di mostrarmi determinata.

Mitch si porta le mani tra i capelli. "Non ci riesco! Non ci riesco, va bene?! Vuoi andare via? Prego, quella è la porta. Se non ti vado bene così, sei libera di andartene!" sbotta del tutto fuori controllo, tenendo il braccio teso verso la porta di casa.

"Altrimenti puoi colpirmi, come hai sempre fatto, nonostante all'improvviso sembri non andarti più bene. Dai, forza colpiscimi! Fallo, così posso colpirti anche io. Ormai non le contiamo neanche più le volte in cui è successo. E' così che funziona tra di noi!" insiste e si avvicina a me, sfidandomi e costringendomi ad indietreggiare, finchè non mi ritrovo con le spalle al muro per l'ennesima volta davanti a lui. Lo fisso seria e un'improvvisa calma consapevole scende su di me, mentre punto i miei occhi nei suoi e incrocio le braccia sul petto. "Non più" sentenzio con voce grave.

Dopodichè mi scosto, rinunciando a reagire alle sue provocazioni. Non ho intenzione di fargli nulla, ne ho abbastanza di lotte continue, sono esausta. Anche Mitch rinuncia a colpirmi; la mia indifferenza lo sconvolge più di qualsiasi folle sfuriata. Lascia cadere le braccia lungo i fianchi e abbassa le spalle, si limita a guardarmi con un'espressione stravolta mentre mi dirigo verso la porta ed esco, richiudendomela alle spalle. Per una volta faccio ciò che lui mi ha chiesto: me ne vado.

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