Era da tanto tempo che non andavo in bicicletta. Da bambina mi piaceva molto. Pedalavo intorno al mio isolato su una bici rosa di seconda mano, con la vernice del telaio scolorita e la gomma del manubrio cotta e appiccicosa. Diventata più grande, fregavo le BMX dei miei amici e mi divertivo a percorrere ad una velocità folle le strade di periferia, inchiodando ogni volta che un'automobile svoltava l'angolo all'improvviso. Un paio di volte ho fatto delle belle cadute, procurandomi qualche sbucciatura.
Ultimamente Mitchell si reca sempre più spesso in centro città, per non so quali impegni, così quest'oggi non ho potuto prendere il pickup e mi sono dovuta accontentare di questa bicicletta da uomo un po' arrugginita. L'ho trovata sotto la tettoia che si colloca dietro la nostra casa e che dovrebbe ospitare il pickup in caso di pioggia. In realtà però lo spazio è interamente occupato da taniche di benzina, vecchi attrezzi da lavoro, scatoloni vuoti, bauli impolverati; in tutta quella confusione sono riuscita a trovare questa vecchia bici, che probabilmente apparteneva allo zio di Mitch.
In fin dei conti sono contenta di essere stata costretta ad usarla. Questo pomeriggio infatti c'è un'insolita brezza leggera, la quale mi permette di apprezzare il sole caldo sul viso, mentre pedalo a lato della strada asfaltata che mi conduce fuori dalla nostra cittadina. Fortunatamente non passano molte automobili. Alcune macchine costose sfrecciano veloci al mio fianco; i conducenti probabilmente mi reputeranno una povera stupida per aver deciso di affrontare un simile percorso in bicicletta. Ogni tanto sento qualche clacson suonare e un fischio provenire dal finestrino abbassato. Io mi limito a proseguire indifferente: a certi atteggiamenti ci sono fin troppo abituata. Di tanto in tanto però non mi trattengo dall'alzare il dito medio in direzione degli uomini di mezza età che, con le mani ancora sul volante, si girano per ammiccare in mia direzione.
Ho appena consegnato, presso l'ufficio della Guardia Medica, uno degli ultimi test che ho dovuto svolgere per ottenere l'abilitazione di paramedico e sono abbastanza soddisfatta del risultato ottenuto. Mi perdo in questi pensieri rilassati, continuando a pedalare come se nulla fosse. Mi soffermo ad osservare la terra brulla e la vegetazione arida del paesaggio che mi circonda.
Mi accorgo che sto recitando il ruolo di una ragazza qualsiasi, spensierata, pur di impedire alla mia mente di costringermi a fornirle spiegazioni circa il luogo verso cui sono diretta. Ho preso questa decisione senza neppure riflettere e forse è stato meglio così. D'altro canto, da quando in qua devo trovare una motivazione valida per ogni mia azione?! Da quando in qua mi preoccupo che i miei comportamenti siano coerenti? Non devo rendere conto a nessuno, men che meno alla mia coscienza.
Ignoro le ginocchia che, per la prima volta in vita mia, sembrano tremare leggermente quando smonto dalla bicicletta. La lascio in prossimità di una delle aiole del giardino rigoglioso che si estende davanti l'ospedale e mi incammino all'interno dell'edificio.
Attraverso l'ingresso e saluto alcune infermiere che mi conoscono, prima di raggiungere il reparto di ortopedia. Percorro il corridoio, continuando ad intimare alla mia mente di tacere e di non processarmi perché mi trovo, senza alcun palese motivo, in un posto in cui non dovrei essere. Quando però raggiungo la stanza di Riccardo, la trovo vuota. O meglio, capisco che questa è ancora la sua camera di degenza, ma al momento lui non c'è. Mi volto e faccio per tornare alla reception del reparto, per chiedere informazioni sul paziente, ma mi fermo prima di svoltare l'angolo del corridoio. In piedi di fronte al bancone di accoglienza vedo i genitori di Riccardo, i quali sono a colloquio con il Primario di ortopedia, appena sopraggiunto dal suo ambulatorio.
È chiaro che quello che sto facendo è origliare, una cosa già di per sé sbagliata, per di più in un ospedale, con lo scopo di carpire informazioni riguardanti un paziente. La verità però è che non riesco a realizzare tutto questo nel momento in cui mi blocco angosciata. Mi accorgo che il mio cuore ha accelerato i suoi battiti e tutto quello a cui riesco a pensare è la speranza che Riccardo stia bene, che non ci siano stati peggioramenti improvvisi, come suggeriscono le espressioni cupe dei suoi genitori.
"La situazione è stabile e, in base a ciò, potremmo escludere la possibilità di un altro intervento. Il problema è che non possiamo essere certi della corretta aderenza del tessuto nervoso se prima non cogliamo dei chiari miglioramenti. Il che è impossibile senza la fisioterapia che vostro figlio è restio a compiere. Se non potremo monitorare le prestazioni della sua schiena in condizioni riabilitative, è difficile che riesca a recuperare la piena funzionalità motoria una volta dimesso." Il Primario, un uomo alto e slanciato nel suo camice bianco, parla con voce chiara e pacata, tenendo le mani congiunte, senza mai distogliere lo sguardo dai suoi interlocutori.
La madre di Riccardo appare angosciata, mentre il padre assume quell'espressione severa che ho visto tante volte sul volto del figlio. "Non possiamo lasciare che anche lui si rovini con le sue stesse mani." Nell'udire la voce dolce e affranta della Signora Torres avverto lo stomaco stringersi. Il marito le avvolge le spalle con un braccio e si limita a lasciarle un lieve bacio sulla tempia. "Al momento Riccardo si trova in terrazza se volete fargli visita" suggerisce l'infermiera di turno. La madre di Riccardo osserva il marito, in attesa che acconsenta, ma questo scuote il capo: "La nostra presenza finirebbe solo col farlo innervosire" decreta con voce profonda, deludendo le speranze della moglie.
Il dottore, considerate le espressioni contrite dei Signori Torres, sembra avvertire la necessità di rassicurarli. "Il primo intervento subito da Riccardo tempo fa ha portato a buoni risultati e attualmente, Signori, posso assicurarvi che il peggio è passato e che vostro figlio non corre ulteriori gravi rischi. Ma se non troverà un incentivo che lo spinga a voler stare bene davvero, non riuscirà a riprendersi completamente." Le parole del Primario suonano quasi come una sentenza e io mi ritrovo ad appoggiare le spalle al muro del corridoio.
Non riesco ad individuare l'origine dello sconforto che provo in questo momento. Non ho mai dovuto assistere nessuno di caro in una malattia, dunque non ho ricordi traumatici legati alla sofferenza. Inoltre ho sempre affrontato il tirocinio di paramedico con la determinazione di aiutare gli altri a stare bene, facendo tutto il possibile. Ecco perché non capisco come mai un simile resoconto mi turbi a tal punto da gettarmi nello scoraggiamento.
Faccio alcuni respiri profondi, mentre sento i passi dei Signori Torres raggiungere l'ascensore e la porta dell'ambulatorio del Primario richiudersi. Tutto quello a cui riesco a pensare è il volto buono di Riccardo, ma anche la sua espressione fiera e risoluta, apparentemente invincibile; mi accorgo che mi ha sempre trasmesso un senso di certezza, stabilità, sicurezza. La pena che provo nell'ipotizzare la sofferenza che si ostina a nascondere mi schiaccia il petto, impedendomi di respirare.
Con la determinazione dei suoi progetti, Riccardo potrebbe davvero apportare importanti cambiamenti nelle vite di molti, migliorandole. Eppure sento che forse, al momento, ci credo più io di lui, considerata la sua riluttanza nel cambiare prima di tutto il corso della sua malattia e nell'affrontare la convalescenza nel modo corretto.
Finalmente mi accorgo di essere nel posto giusto, di stare esattamente dove devo. Finalmente trovo una giustificazione nei confronti della mia coscienza e sento di essere in possesso di un valido motivo per stare qui, in questo ospedale. Infatti, pur non sapendo riconoscere i sentimenti che si muovono dentro di me, con cui non sono abituata ad avere a che fare, ho sempre saputo di non riuscire ad essere indifferente di fronte ai problemi degli altri. Non voglio farlo. Capisco di poter essere io quell'incentivo in grado di aiutare chi se lo merita, come Riccardo, il quale finora sembra abbia voluto fare la stessa cosa nei miei confronti. E ne sono sempre più convinta, mentre mi incammino con passi lunghi verso la terrazza che si estende oltre le imponenti porte a vetri al termine del corridoio.
STAI LEGGENDO
VITE DI SCARTO
RomantiekLa vita di Trilly è dominata dalla legge del dare per ricevere. È quello che ha imparato interagendo con i clienti dal Night Club in cui lavora, alle porte di Las Vegas. E lo accetta. Sa come sopravvivere in quel mondo. Glielo ha insegnato Mitchell...