Capitolo 26: Vetri rotti

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Le luci della strada provinciale che percorro sono già accese

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Le luci della strada provinciale che percorro sono già accese. Il sole è tramontato da poco, ma il cielo è ancora abbastanza chiaro e l'aria è limpida. Questo è il momento migliore per respirare un po' della brezza fresca che segue il caldo afoso del giorno e precede l'umidità appiccicosa della notte. Lascio che il vento filtri attraverso il finestrino abbassato del pickup e che rinfreschi non solo la mia pelle, scoperta dalla camicia a mezzemaniche della divisa da paramedico, ma anche la mia mente. I capelli sono sciolti e qualche ciocca mi accarezza il viso.

Sono ancora assorta negli stessi pensieri intricati di questo pomeriggio, anzi di questa settimana, poiché la mia mente non mi dà tregua dall'ultimo colloquio che ho avuto con Lou al SIN. Mi sembra di camminare sui vetri rotti, di non sapere come muovermi perché il pericolo di farmi male o di ferire gli altri è elevato; avverto il possibile avvento di un disastro prossimo, ma impredicibile.

Continuo a passarmi una mano sul volto, per poi appoggiare il gomito al finestrino e mordermi le unghie, mentre le dita dell'altra mano stringono saldamente il volante, tanto che le nocche appaiono bianche. Quasi senza che me ne accorga, imbocco l'uscita che non mi porta a casa. In realtà, mentirei a me stessa se dicessi di essermi semplicemente distratta: la provinciale non è la strada che di solito percorro per tornare a casa; infatti, ben presto, mi ritrovo a posteggiare il pickup nel parcheggio dell'ospedale.

Faccio un respiro profondo e prendo tempo, quasi per verificare le mie intenzioni. Mi lego i capelli nello chignon basso che faccio sempre quando sono di turno sull'ambulanza e ravvio due ciocche dietro le orecchie, guardandomi nello specchietto retrovisore. Ma chi voglio prendere in giro? Da quando in qua sono quel tipo di persona che riflette prima di agire e soppesa le proprie intenzioni? Con un gesto fulmineo, apro la portiera e smonto dal pickup, richiudendola con un colpo secco dietro di me e incamminandomi con passo rapido verso l'entrata per i visitatori. 

Seguendo le mie ipotesi, raggiungo il reparto di ortopedia e mi rivolgo all'infermiera che si occupa dell'accoglienza in reparto. Questa mi scruta attenta, consapevole quanto me che non si possano fornire informazioni a chi non è dichiaratamente un parente del degente. Ad ogni modo, una volta considerata la mia divisa di paramedico e dopo aver saputo che ero presente nel momento del ricovero, acconsente a dirmi ciò che desidero.

Mi incammino lungo il corridoio indicatomi, percorrendo il pavimento lucido e facendo attenzione al numero delle camere. I miei scarponcini rimbombano nella quiete circostante. Rallento il mio passo spedito quando, poco più avanti, scorgo una coppia uscire dalla stanza verso cui sono diretta.

Sono entrambi di mezza età. La donna ha i capelli biondi raccolti in un'elegante pettinatura; indossa un cappotto di cammello; è perfettamente truccata, con le ciglia lunghe e le labbra dello stesso rosso delle unghie curate; al collo porta una vistosa collana di perle dai colori scuri. È a braccetto di quello che immagino sia il marito, il quale tiene le mani congiunte dietro la schiena; ha i capelli brizzolati e indossa un cappotto di panno scuro sopra il completo giacca e cravatta. Hanno entrambi un portamento altero e un'espressione grave mentre parlano sommessamente tra di loro. La donna accompagna le proprie parole con gesti controllati, mentre cammina sicura sui tacchi delle decolleté di vernice nera; l'uomo si limita ad annuire, tenendo lo sguardo assorto fisso sui propri passi.

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