Capitolo 22: Impulsività

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"Sicuro sia tutto ok?" domando.

Io e Mitch siamo appena rientrati in casa; questa sera non ci siamo fermati al Pub vicino alla pista di motocross. A Mitch non andava, ma non credo fosse per via della caduta in sé, bensì per la delusione di aver perso il turno in questa gara.

Lo vedo scrollare le spalle e roteare le braccia per sciogliere i muscoli, mentre con una mano si massaggia la spalla su cui è caduto. "Sto bene Trilly, non c'è bisogno che me lo chiedi ogni trenta secondi. È sempre la stessa domanda a cui segue sempre la stessa risposta" sbuffa spazientito e si siede a terra, contro la parete di cartongesso dall'intonaco un po' scrostato che separa il salotto dalla cucina.

Mi aspettavo una simile reazione, per questo non ho neppure atteso la risposta. Mi sono subito diretta in cucina per tirar fuori dal freezer alcune bistecche. Tornata in salotto, gliele porgo affinché se le metta sul braccio e sul fianco, in modo da limitare l'ematoma che già si sta formando. "Non c'è bisogno di esagerare. Non è niente di diverso da quando mio padre me le dava da ragazzino" borbotta Mitchell.

Mi siedo accanto a lui, appoggiando i gomiti sulle ginocchia divaricate. "Dovresti comunque farti visitare, per escludere una lussazione o qualche lesione interna" gli faccio notare, sapendo di alimentare semplicemente il suo nervosismo. Lui infatti parla tenendo lo sguardo scocciato fisso nel vuoto di fronte a se: "Il medico che presenzia alle gare ha detto che è tutto a posto" comincia, e io faccio una smorfia, dubitando della reale licenza posseduta da quel tizio che al circuito si spaccia per dottore. "E poi... ci sei tu. Se succede qualcosa d'altro, ci pensi tu. Come prima" aggiunge Mitch, con voce più sottile, tenendo lo sguardo impegnato nell'osservarsi il braccio. "Non sono poi così qualificata" mormoro, parlando tra me e me.

A questo punto Mitchell si volta e mi guarda serio, non c'è più alcuna traccia di fastidio sul suo viso. Capisco che sta provando a dire quello che sente, cosa che non fa spesso. "Trilly, grazie per prima. Sei intervenuta prontamente e senza farti prendere dal panico. Sei stata brava. Non lo immaginavo" commenta, poi si affretta a correggersi: "Non è che non credevo tu fossi brava, è che..." sbuffa, provando a formulare coerentemente ciò che vuole esprimere.

Io aspetto e rido tra me. Ritengo che in realtà le cose più vere sono proprio quelle dette senza riflettere. Ecco perché io mi lascio trascinare dall'istinto e perchè, sotto sotto, non mi dispiace l'impulsività di Mitch.

Lui resta in silenzio per un secondo e poi riprende con tono calmo: "Non avevo mai considerato quanto utile e concreto fosse quello che ti piace fare. Aiutare gli altri, intendo. È una bella cosa, davvero; non l'ho mai messo in discussione. Però ancora non capisco che bisogno e che senso ci siano nell'andare là fuori a rischiare per degli sconosciuti, i quali magari non chiedono né vogliono il tuo intervento e non ti ringraziano neppure" ammette. Mi piace sentirlo parlare sinceramente; questa è una di quelle volte in cui Mitch prova ad essere consapevole di quanto dice. Io faccio un respiro profondo e azzardo: "Be', anche tu rischi nel fare quello che fai, ma lo fai comunque, perché ti piace. A me fare il paramedico piace e non dico che non mi piaccia anche ballare, ma quello mi porta ad avere a che fare con dei rischi che non posso e non so gestire, mi porta solo a subire. Quando intervengo per un'urgenza invece ho un ruolo attivo e sono in grado di gestire tutti gli imprevisti. Sii onesto, Mitch: neanche tu oggi, se te lo avessero chiesto e avessi potuto decidere, avresti voluto il mio aiuto, però poi hai saputo riconoscerlo e hai finito col ringraziarmi" gli faccio notare, voltandomi e guardandolo di traverso, abbozzando un sorrisetto furbo.

Lui schiude le labbra e fa per ribattere, ma si accorge di non avere la risposta pronta. Così io mi giro e alzo un dito divertita: "No, ormai è tardi. Non puoi più rimangiarti quel grazie" lo rimprovero ridendo. Lui trattiene una risata e non manca di replicare: "Allora, mi mangio questo" dice, afferrandomi il dito e mordendolo. Mi rendo conto ora di quanto a volte mi manchi il Mitchell sempre pronto a giocare, scherzare e prendermi in giro, come facevamo da bambini.

Ridiamo insieme, finchè Mitch fa una smorfia per il dolore che lo colpisce al fianco dopo essersi spostato. Così mi alzo e vado a rovistare nell'armadietto del pronto soccorso in bagno, per cercare una pomata antinfiammatoria. Torno in salotto e, stando in piedi davanti a lui, gliela porgo, sapendo già che la rifiuterà. "Mettimela tu" dice invece, con una voce soffice che gli ho sentito poche volte. Stupita, mi inginocchio nuovamente e gli sollevo la maglietta. Passo delicata le dita sulla sua pelle chiara e già segnata, mentre Mitch non distoglie gli occhi dal mio viso nemmeno per un istante, scrutandomi attento oltre le ciglia scure. "Vorrei riuscire ad essere sempre così delicato con te anche io" sussurra. Alzo lo sguardo e mi sorprendo nel non vederlo rimangiarsi immediatamente quelle parole. Scuoto il capo e replico schiva: "A volte sbagliamo entrambi, lo sai."

Dopodichè restiamo così, seduti a terra contro la parete della sala, a fumare in silenzio una sigaretta mentre io non la smetto di giocare con l'accendino che ho tra le mani, quello con disegnata sopra la bandiera americana, da cui non mi separo mai. Ascoltiamo la musica trasmessa dalla radio che ho acceso a basso volume. Ad un certo punto suona Young Forever, una delle canzoni che io e Mitchell più ascoltavamo da ragazzini. Senza neppure accorgercene, ci mettiamo a canticchiarla insieme, a voce bassa. Appoggio la testa sulla spalla di Mitch e lui mi prende la mano. Dopo qualche minuto di silenzio parlo senza riflettere, perché è così che le cose più vere vengono fuori. "Perché non può essere sempre così, eh Mitch? Perché io e te non possiamo essere sempre così?"  domando retorica in un sussurro, senza aspettarmi una risposta. Invece lo sento mormorare: "Credimi, piacerebbe anche a me. E non sai quanto mi dispiace per il fatto di non riuscirci."

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