17. Verità

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Finisco di mangiare l'ultimo boccone velocemente, mando giù un intero bicchiere d'acqua e mi alzo prontamente da tavola facendo strisciare la sedia sul pavimento.

«Santo cielo, Alec. Hai mangiato così velocemente che credo di aver faticato a vederti le mani.»

«Sì, magari sono uno di quei personaggi degli anime.»

«Che?» chiede con una smorfia perplessa mia madre.

«Devi andare a studiare?» mi chiede mio padre, mentre mangia lentamente e mi guarda alzando un sopracciglio.

«Sì» rispondo con tono non proprio sicuro. «Devo andare a casa di quel mio compagno che mi dà lezione.»

«Jace ha fatto veramente miracoli» parla mia madre informandolo. Lui si perde un po' di cose da quando ha accettato quel lavoro fuori paese.

Annuisce. «Ma non è tardi? Saresti potuto andare da lui questo pomeriggio.»

«Aveva un impegno. Mi ha chiesto di andare ora, ed è quello che faccio. Ciao» saluto abbastanza sbrigativo.

Mi dirigo verso la porta afferrando al volo la mia felpa. «Mamma prendo il motore!»

«Va bene, Alec. Non tornare tardi!»

«Tranquilla, mamma!»

Ho il motore da un bel po', ma non mi piace tanto quanto dovrebbe o tanto quanto piace ai miei coetanei. Lo utilizzo di più in estate, ma quando le giornate si accorciano e le sere si rinfrescano, il vento che congela ogni centimetro del mio corpo quando viaggio con il motore non mi allieta proprio per niente.

Ma questa sera non ho passaggio, perciò mi devo arrangiare. Quando si tratta di andare a scuola la maggior parte delle volte preferisco andare a piedi o, nelle giornate di pioggia, prendo l'autobus. Ricordo perfettamente quanto tempo ci ho messo per raggiungere a piedi casa mia da quella di Jace, perciò la migliore se non unica opzione è quella di utilizzare il motorino.

Afferro il casco, esco dal garage e parto.

Non ho tanta fretta perché non vedo l'ora di rivederlo, lo vedo fin troppo spesso a causa della scuola. Ho tanta fretta perché non vedo l'ora di fargliela pagare, a quello stronzo che ha permesso che il mio ultimo anno al liceo iniziasse in modo catastrofico.

Appena arrivo trovo Jace fuori, sul balcone di camera sua, che fuma una sigaretta. Mentre spengo il mio unico mezzo di trasporto e sistemo il casco sulla sella, Jace getta il mozzicone a terra.

«Sai che stai inquinando? Non dovresti buttare i mozziconi a terra.»

«Buona sera anche a te, Black.»

«Dico sul serio, Jace» dico guardandolo dal basso.

«Perdonami, mamma. La porta è aperta, Rachel se n'è appena andata. Accomodati in salotto che sto scendendo.»

È assurdo che lasci la porta aperta anche solo per qualche minuto in questo posto desolato e inquietante.

Se di giorno la luce del sole illumina tutto, rendendo il panorama spettacolare, di notte il rumore degli animali nel bosco poco distante o di quelli del lago, e il buio che copre tutto quello che mi circonda rendono l'atmosfera davvero spettrale e inquietante.

L'unica fonte di luce, oltre quella della luna a spicchio, è quella che proviene dalle lampade perimetrali al sentiero che conduce alla casa, e da una solitaria lampada appesa al muro vicino alla porta. Non mi sembrano affatto sufficienti.

Entro in casa e mi siedo sul divano in pelle nera del salotto.

Sento Jace scendere le scale alle mie spalle e raggiungermi. Si butta con tutto il suo peso sul divano, proprio accanto a me, schiacciando un povero cuscino di cui si libera subito dopo.

Ama e fa' ciò che vuoiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora