61. Pensieri

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«Alec, si può sapere che ti succede?» mi sgrida Shawn dopo che sono andato a sbattere contro di lui con tutto il vassoio del pranzo,  sprecando il mio cibo e sporcandogli i vestiti. «Oggi sei proprio assente.»

Non è di certo la prima volta in cui io e Jace finiamo per litigare. La maggior parte delle volte è successo proprio per lo stesso motivo, le altre erano solo per stupidaggini superficiali. Ma non mi aveva mai urlato addosso in quel modo, mai mi aveva guardato con quello sguardo quasi ostile, offeso, arrabbiato... perfino triste forse, impaurito.

E, tantomeno, non mi aveva mai colpito. Questa è stata la prima volta dopo tantissimo tempo. Dopo mesi ho ricevuto di nuovo la furia di un suo pugno e ne ho incassato il dolore.

Sono rimasto così sconvolto ieri che, arrivato davanti casa mia, sono rimasto imbambolato davanti la porta per minuti interi. Solo il vicino che rincasava mi ha svegliato dal mio stato di trance.

Mi ero accorto, quando sono entrato in bagno e mi sono guardato allo specchio, di come le lacrime mi erano scese silenziose per tutto il viso mentre ritornavo, ancora erano evidenti le loro tracce ormai asciutte. Si erano pietrificate sul mio viso come a ricordarmi di quanto Jace possa farmi male da un momento all'altro, e quando mi sono lavato il viso, il dolore sul mio zigomo mi ha fatto arrabbiare ancora di più.

Davvero ero nel torto io? Oppure lo era lui? Non riuscivo più a pensare a niente, solo alla mia rabbia che, col passare delle ore e con l'avanzare della notte, si è trasformata in profonda tristezza.

Ogni volta che rivedevo la sua espressione, ogni volta che rivivevo quelle scene sentivo un profondo dolore al petto... e mi sono sentito in colpa.

Così sono finito per passare la notte insonne, a dimenarmi nel letto cercando di trovare un'opinione stabile.

Un momento prima lo maledicevo con tutto me stesso, mandandolo a fanculo più volte col pensiero, chiedendomi se lui davvero merita la mia pazienza.

Il momento dopo, però, mi ritrovavo a ritirare tutto ciò che avevo pensato, a scusarmi con lui, a chiedermi se in effetti io non abbia realmente esagerato con le parole.

Mi sono alzato e ho girovagato per la stanza come un criceto impazzito, a domandarmi ancora e ancora se non sono stato troppo opprimente, troppo ficcanaso, se sono io quello che in realtà l'ha ferito.

Avanti così con queste paranoie e questi pensieri contrastanti per tutta la notte, finché il sole non è sbucato fuori dall'orizzonte e qualche ora dopo la mia sveglia ha preso a suonare insistente per tutta la stanza facendomi sobbalzare sul letto sul quale, infine, stremato e assonnato, mi ero arreso.

Per tutta la giornata, quindi, non ho fatto altro che sonnecchiare, ignorando completamente le spiegazioni dei professori e i loro rimproveri, ignorando la gente che mi passava accanto spensierata, ignorando i miei amici.

Mi sono spostato per la scuola, per le classi e per i corridoi come un automa, seguendo la massa che adesso mi ha condotto nella sala mensa. Ho afferrato il mio vassoio e ho camminato con gli occhi semichiusi, fino a ritrovarmi davanti mio cugino che mi sgrida e cerca di destarmi.

«Alec, ci sei?»

Guardo il disastro che ho combinato, afferro un tovagliolo cercando di ricorrere alla bell'e meglio alle macchie sulla sua maglia. Poi lo guardo dritto negli occhi e per poco non scoppio a piangere come un poppante. Così mi porto le mani alla faccia, nascondendo i miei occhi serrati e le mie labbra che si piegano involontariamente all'ingiù.

«Alec? Stai bene? Ti porto in infermeria se non è così» pronuncia Shawn con tono preoccupato. Mi costringe a togliere le mani dal viso e mi fissa con uno sguardo dello stesso tipo.

Ama e fa' ciò che vuoiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora