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Sono uscito da scuola dopo che, in qualche strano modo, sono riuscito a calmarmi. Era già passata un'ora e mezza dal fatto, ma non riuscivo a tollerare l'idea di essere nello stesso edificio di Jace e di Jim contemporaneamente.

Mi sono asciugato il viso dalle lacrime, mi sono sciacquato le mani un'ultima volta e sono uscito fuori. All'entrata ancora giaceva solitario il mio zaino in mezzo al cortile. L'ho afferrato e me ne sono infischiato del vento che mi soffiava addosso, mi sono incamminato verso casa senza più pensare a nulla.

Per fortuna mia madre era ancora al lavoro quando sono arrivato, e per fortuna dovrà andare da papà a dormire questa sera. Mi basterà solo non essere a casa quando lei rientrerà per andarsene di nuovo subito dopo.

Mi sono messo a letto e ho cercato di riposare in qualche modo, per non pensare più a quello che è successo spegnendo la mia mente per qualche ora.

Ma invece niente. Ho vagato nel buio dietro ai miei occhi serrati per molto tempo prima di decidere di smetterla. Mi sono alzato e ho fissato fuori dalla finestra mentre maledicevo il giorno in cui Jace Andrews mi ha baciato, buttandomi in questo enorme pasticcio da cui sembra che io non riesca proprio ad uscire.

Adesso è l'ora di pranzo ma non ho alcun accenno di appetito. Mi sento vuoto, e basta.

Mi butto sul divano, afferro il telecomando e comincio con il mio hobby preferito: zapping. Rimango a girare e rigirare i canali per un bel po', poi, inspiegabilmente, sento arrivare il sonno.

Spengo il televisore e mi sistemo sul divano per dormire un po'.

* * *

A svegliarmi all'improvviso è il suono del campanello.

Mi alzo un po' a fatica, ancora dolorante.

Apro la porta.

«Ciao, Alec» mi salutano Shawn, Sarah e Paul.

«Ciao» li saluto fingendo un sorriso. Non mi va di farli preoccupare né tantomeno ho voglia di essere compatito.

Li invito ad entrare e tutti e quattro ci sediamo al tavolo in cucina.

«Si può sapere cosa è successo questa mattina?» chiede preoccupato Shawn, andando dritto al punto.

E, in questo momento, mi sento di dover raccontare ogni cosa, perciò lo faccio senza esitazioni, sperando che dire tutto ad alta voce mi alleggerisca questo peso che mi sento addosso.

Racconto loro tutto: racconto di quando Jace mi pestava quest'estate, fino all'inizio della scuola; racconto di come il nostro rapporto era migliorato; rivelo i dettagli di quella sera senza vergognarmene perché così è stato, e vergognarmene non cancellerebbe affatto gli eventi; dico che è stato Jim, con la complicità di Margaret, a pubblicare la foto; narro della discussione conseguente e di come Jace mi aveva detto che non si sarebbe vendicato. E invece lo ha fatto. Da lì tutto è intuibile, non servono parole.

Tutti e tre prendono a guardarmi compassionevoli, con sguardi tristi e arrabbiati allo stesso tempo, mentre io continuo a tormentarmi le dita.

«È inutile chiederti se stai bene...» commenta Shawn.

«Sto bene» voglio rispondere io. Alzo finalmente gli occhi in quelli degli altri. «Davvero. Non dovete preoccuparvi. D'altronde non è la prima volta che mi succede, ci sono abituato.»

«È proprio questa la cosa che non ti fa stare bene, il fatto di ritenerla un'abitudine» parla Sarah. «Ed è inutile che provi a negarlo, si vede lontano un miglio.»

«Invece è il contrario: è proprio perché mi sono abituato a sopportarlo, mi sono abituato ad aspettarmelo da un momento all'altro e perché so come superarlo... è proprio per questo che sto bene. Credetemi» ribatto. «È la verità.»

Ama e fa' ciò che vuoiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora