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𝒸𝒶𝓅𝒾𝓉𝑜𝓁𝑜 𝓆𝓊𝒶𝓇𝒶𝓃𝓉𝒶, 𝒷𝓊𝒾𝑜
I momenti felici, i momenti tristi, i momenti furiosi, i momenti divertenti; stavano passando velocemente nella mente di Jisung. Un rullino pieno di fotografie che si bloccavano una alla volta nella testa dell'arancione, sembrando adesso così lontani e irraggiungibili. Jisung non si era mai soffermato sui ricordi, era il tipo che viveva nel presente, che si godeva ogni secondo senza mai pensare al passato o al futuro. Forse era stato quello il suo errore, perché non si era preparato a quel momento. Da quando la mamma si era ammalata ha vissuto per anni nell'ansia, ma non ci aveva mai pensato a quel momento cruciale. Magari non voleva farlo per paura, per stare bene. Magari non voleva farlo per dare speranze a lui e a sua madre. Magari non voleva realizzare che un giorno sarebbe stato da solo. E alla fine quel giorno era arrivato e Jisung era totalmente inesperto. Gli mancava l'aria, i ricordi stavano iniziando a sparire e al loro posto la nebbia prese posizione. Ora il mondo gli sembrava ancora più grande e lui era una piccola formichina che veniva schiacciata. Tutto intorno a lui iniziò a girare, non riusciva a capire niente. Cadde di getto con le ginocchia sul pavimento del terrazzo. Non si ricordava come ci fosse arrivato lassù, voleva prendere una boccata d'aria o forse il motivo era altro. Si sforzò a guardare il panorama da quel punto altissimo, tutto gli faceva paura. «Mamma ho paura, vienimi a prendere» piagnucolò come un bambino. Le lacrime non si fermarono per un secondo, stavano scendendo da quando i dottori avevano detto quelle bruttissime parole. Jisung si sentiva come un piccolo bambino, in realtà lo era sempre stato. Non aveva mai guardato in faccia la realtà, si era sempre circondato dalla positività, dalle piccole cose ma belle che aveva da offrire la vita e in questo modo, in quel momento, la triste realtà lo stava schiacciando. Era troppo impreparato per affrontare la vita, il mondo che lo circondava. Forse con sua madre poteva farcela, ma adesso da solo era impossibile. Ripensò a tutte quelle piccole cose che l'avevano reso felice nell'arco della sua vita: la sua chitarra nera, il suo quaderno, la sua voce, la musica. In quel momento sembravano tutte cose fasulle, futili. Una scusa per riempire il vuoto dentro di sé, senza lasciare un'emozione. Si stava scrollando di dosso tutte le cose belle. E poi ripensò alle persone più importanti della sua vita in quel momento: sua madre, Minho. La sua mamma oramai non c'era più e Minho? Forse si era stancato di lui, alla fine non aveva tutti i torti ad essere arrabbiato. Forse nessuno dei due era pronto a stare insieme, forse non sarebbero durati. E si scrollò di dosso anche le persone importanti della sua vita. Oramai non aveva più speranza, la cruda realtà l'aveva sopraffatto. Si alzò barcollante da terra, il suo sguardo era fisso sull'orizzonte. Il cielo stava cominciando a tingersi di arancione, si ricordò di tutte le volte che l'aveva osservato insieme alla mamma dalla finestra dell'ospedale. Ogni volta che calava il sole per Jisung era una pugnalata al petto; si sentiva in ansia quando sbucava il buio, non era al suo agio, però c'era stata sempre sua madre a fargli compagnia per diciotto anni. In quel momento non c'era e Jisung non se la sentiva di affrontare il buio da solo. Fece alcuni passi in avanti, il suo bacino si andò a scontrare con la ringhiera che circondava la terrazza. Continuò a proseguire, scavalcandola. Nemmeno sul punto di morte riuscì a guardare in faccia la realtà, si girò di spalle. Osservò per l'ultima volta quella terrazza, quell'ospedale che non gli aveva dato altro che dolori. Lo odiò con tutto se stesso, l'aveva illuso con il suo colore confortante. Anche se sapeva che la colpa non era di quella struttura ma solo sua, per non essersi preparato a dovere, per aver sottovalutato la situazione. Voleva incolpare qualcosa per sentirsi almeno più leggero, per poter saltare giù con meno colpe. E funzionò, Jisung lasciò la presa dalla ringhiera con serenità.