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𝒸𝒶𝓅𝒾𝓉𝑜𝓁𝑜 𝓈𝑒𝓉𝓉𝑒, 𝓋𝑒𝓇𝒾𝓉𝒶̀
Erano passati un paio di giorni da quando Jisung aveva assistito a quella quasi terrificante scena, se non avesse agito in tempo. Dopo quelle parole che aveva detto, su quella terrazza, aveva lasciato il ragazzo da solo, scendendo lentamente quelle ripide scale grige. Da una parte era fiducioso nel fatto che avesse convinto, almeno in quel momento, il ragazzo con le sue parole, dall'altra però non si poteva mai sapere. Voleva fargli compagnia, almeno finché non fosse arrivata qualche infermiera per così riportarlo in camera, ma Jisung immaginò che era meglio lasciarlo da solo, a rimettere in ordine i suoi pensieri e a trovare quella nuova porta che gli aveva citato. Quando fece quel discorso, Jisung si sentì un po' stupido. Non seppe esattamente come gli vennero in mente quelle parole e come gli uscirono dalla bocca così morbide e incantevoli, quasi vere. Sembrava il classico discorso di un personaggio di un film, eppure sentiva che in quel momento doveva dirle, quelle parole. Per convincere almeno uno di loro due. In quei giorni seguenti l'arancione si sentì un po' in colpa; perché lui era quel tipico ragazzo che dava sempre dei consigli agli altri ma era il primo a non eseguirli. Si sentiva falso. Non aveva sentito, fortunatamente, nessuna triste notizia all'interno dell'ospedale. Pensò quindi che quel ragazzo, almeno fisicamente, stesse bene e che quindi l'avesse realmente convinto. O semplicemente si stava illudendo, perché non era uno sciocco. Jisung lo sapeva, si vedeva. A volte pensava se fosse veramente un bene, essere intelligenti. Capire certe cose, nonostante ti mentissero in modo così perfetto da farti credere che quella fosse la verità. Quando arrivò sulla soglia di quella porta, oramai sua, e si affacciò nella stanza, Jisung si chiese se fosse un bene, sapere la verità.
