二十四; not giving up

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𝒸𝒶𝓅𝒾𝓉𝑜𝓁𝑜 𝓋𝑒𝓃𝓉𝒾𝓆𝓊𝒶𝓉𝓉𝓇𝑜, 𝓃𝑜𝓃 𝒶𝓇𝓇𝑒𝓃𝒹𝑒𝓇𝓈𝒾

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𝒸𝒶𝓅𝒾𝓉𝑜𝓁𝑜 𝓋𝑒𝓃𝓉𝒾𝓆𝓊𝒶𝓉𝓉𝓇𝑜, 𝓃𝑜𝓃 𝒶𝓇𝓇𝑒𝓃𝒹𝑒𝓇𝓈𝒾

Gli occhi erano fissi in quel punto, come se così facendo le sue gambe sarebbero guarite e ritornate come un tempo. Il respiro di Minho era affannoso, eppure non aveva ancora iniziato a muoversi in quella sala di riabilitazione. Spostò gli occhi un po' ovunque; quel luogo gli dava sempre un senso di soffocamento, voleva scappare come al suo solito ma quel giorno invece volle restare. Strinse con forza le mani attorno alle sbarre, i piedi erano immobili su quel tappeto. Non era cambiato un bel niente dall'ultima volta, le sue ossa erano ancora rigide come un pezzo di ferro. Portò di nuovo lo sguardo sulle sue gambe e il labbro inferiore iniziò leggermente a tremare; gli mancava. Gli mancava poterle muovere senza l'aiuto di quelle stupide stampelle, gli mancava correre di mattina in quel lungo e stretto sentiero, lontano dalla sua casa, isolato dal piccolo paesino in cui viveva, gli mancava ballare, sempre di più. In quel periodo avrebbe dovuto fare dei nuovi corsi per così avanzare di livello, pochi giorni fa erano iniziati, lo sapeva perché con il suo cellulare aveva scrollato sulla pagina della sua scuola di ballo. Non aveva avuto il coraggio di smettere di seguirla, di smettere di seguire ogni aggiornamento della scuola, dei suoi compagni di corso. Minho non aveva ancora smesso di pensare al ballo perché, anche se non voleva ammetterlo, lui ci sperava ancora in un miracolo. E si sentiva uno stupido, perché era palese che tutta quella situazione non sarebbe mai migliorata. Delle gocce d'acqua andarono a macchiare i suoi pantaloni blu del pigiama, Minho aprì e chiuse gli occhi un paio di volte; erano bagnati dalle sue lacrime. Quella era la seconda volta che aveva pianto nell'ospedale, Minho si sentì strano perché per lui piangere così spesso era una cosa nuova. Si asciugò il viso di fretta, non facendosi notare dall'infermiere che lo stava aiutando, dando poi le spalle all'attrezzo su cui doveva esercitarsi. Si era arreso. Voleva sforzarsi, voleva farlo per quel ragazzo che in quel periodo l'aveva aiutato tanto, per così ripagarlo, ma non ci riusciva; essere altruista non faceva per Minho. Mentire non faceva per Minho, mentire sul fatto che quella riabilitazione lo entusiasmava, avrebbe migliorato le sue ossa, non faceva per lui. Minho non voleva mentire a Jisung per così dargli forza, gli avrebbe detto in faccia che non ce la faceva e che ad uscire da quella gabbia era meglio se lo faceva da solo. Si  stava per avviare e, come il famoso detto "parli del diavolo e spuntano le corna", ecco spuntare la minuta figura di Jisung. Minho voleva andare via, davvero, eppure le gambe non gli si muovevano. Poteva usare la scusa dell'incidente, che era vero alla fine, ma non in quel momento e lui lo sapeva; il rimorso lo stava inondando. Jisung gli si avvicinava con quel suo sorriso solare e Minho dentro di sé pensava "come posso abbandonarlo?". «Buongiorno Minho, come va la riabilitazione?» Minho lo guardò per un paio di secondi fisso negli occhi prima di dire quelle parole, non pensava che le avrebbe mai detto a qualcuno, orgoglioso com'è: «T-ti va di aiutarmi?» anche Jisung rimase sorpreso da ciò, Minho avrebbe dovuto ripagarlo ancora una volta e da una parte, pensò, che quella volta l'avrebbe ripagato più per un suo volere che dovere. 



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