十一; silence

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𝒸𝒶𝓅𝒾𝓉𝑜𝓁𝑜 𝓊𝓃𝒹𝒾𝒸𝒾, 𝓈𝒾𝓁𝑒𝓃𝓏𝒾𝑜

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𝒸𝒶𝓅𝒾𝓉𝑜𝓁𝑜 𝓊𝓃𝒹𝒾𝒸𝒾, 𝓈𝒾𝓁𝑒𝓃𝓏𝒾𝑜

La tensione che stava in quella camera era così fitta che si poteva tagliare con un coltello. Jisung sedeva un po' distante dal moro su una delle sedie per gli ospiti che stava in quella stanza, tenendo lo sguardo abbassato verso le sue ginocchia, coperte con dei jeans chiari. Di tanto in tanto sbirciava verso la direzione del moro, che nel frattempo aveva gli occhi in direzione della finestra, quella che si affacciava sul cortile dell'ospedale. L'arancione immaginò che fosse ancora arrabbiato con lui per quella volta, o imbarazzato. Anche lui lo sarebbe stato, pensò. Con un leggero tossio, palesemente falso, Jisung ruppe quel silenzio scomodo. Il moro si girò di scatto verso la sua direzione, con uno sguardo indecifrabile. «Ehm... come stai?» Jisung in quel momento voleva scomparire. Non sapeva perché avesse fatto quella stupida domanda, ma veramente non aveva idea di come iniziare una conversazione con quel ragazzo taciturno. «Alla grande» la risposta del moro fu chiaramente ironica, e Jisung pensò che se lo meritò. L'arancione non riuscì a trattenersi nel guardare con attenzione ogni parte del corpo, fasciata, di quel ragazzo, non riuscendo a mascherare il suo viso dispiaciuto. Brutti pensieri fecero di nuovo capolino nella sua testa, ma il moro li fermò con la sua voce. «So a cosa stai pensando e no, non ho fatto di nuovo quel gesto.» Jisung sgranò sorpreso gli occhi. L'aveva letto nel pensiero? O era stato troppo esplicito? Ovviamente la risposta era evidente, e si meravigliò nell'aver esternato per la prima volta le sue vere emozioni. Jisung mentiva così spesso con quest'ultime che oramai, quelle vere, non sapeva più come fossero. «Mi sono messo a ballare e sono caduto» Jisung era confuso, ma nell'osservare gli occhi del moro scrutare con tristezza il suo corpo fasciato, pensò che sotto c'era dell'altro. Non aveva il coraggio di chiedere, ideò che stesso lui avrebbe continuato con il suo discorso. In quei momenti, pensava sempre Jisung, non era necessario parlare; a volte il silenzio era più consolante di mille parole. «Ho avuto un incidente stradale di cui però non ho memoria, quest'ultimo ha danneggiato le mie ossa. Non potrò più sforzare il mio corpo» e l'arancione subito pensò alle sue parole dette pochi secondi fa, "mi sono messo a ballare", e finalmente capì tutto. «Quindi...» Jisung non aveva la forza di proseguire la frase ma per "fortuna", per modo di dire, continuò il moro. «Per questo ho provato ad uccidermi, non potrò più fare l'unica cosa che mi piace, la mia più grande passione» quanto coraggio gli volle nel dire tutte quelle parole, pensò Jisung, soprattutto ad un estraneo. Quanto era grande e pericolosa la parola "uccidere" e allo stesso tempo, fare quel gesto, non ci voleva niente. Bastava un attimo. Un attimo di follia, per rovinare anni e anni di vita. Se Jisung non fosse passato di lì per caso, cosa sarebbe successo a questo ragazzo? «Aish, starai pensando che sono uno stupido e forse è così. Non so perché te l'abbia detto, fai finta di nulla.» il moro si voltò dall'altra parte, con un notevole rossore sul viso, dando le spalle a Jisung. Quest'ultimo lo guardò; chi era lui per giudicare? Fu un impulso, l'arancione non riuscì a controllarsi. Si avvicinò e la sua mano si posò sulla spalla del moro, facendo sussultare quest'ultimo per la sorpresa. Quel Jisung, che aveva le risposte sempre a tutto, per la prima volta non sapeva cosa dire. E si limitò a fare l'unico gesto sensato in quella situazione; una semplice pacca, come a dire "se vuoi, ci sono io qui". E non sapeva perché lo stava facendo, la sua mania di pensare sempre prima agli altri e poi a se stesso aveva preso di nuovo il sopravvento. Il moro si girò nella sua direzione; non disse nulla, ma i suoi occhi invece dicevano un titubante "grazie". Jisung gli sorrise, ma quest'ultimo si spense fulmineo nell'osservare l'orologio dietro la testa del moro, che segnava le cinque del pomeriggio. Rimosse la mano dalla spalla del ragazzo, mettendosi di scatto in piedi. «Mi dispiace, ma ora devo andare!» da una parte era davvero dispiaciuto doversene andare e lasciarlo così, ma dall'altra aveva le sue priorità; era troppo in ritardo. Prima di andare però la voce del moro lo fermò. «Come ti chiami?» Jisung si voltò con un sorriso timido. «Jisung» il moro ricambiò il sorriso. «Io sono Minho» Jisung era felice di sapere finalmente il nome di quel ragazzo, non sapeva perché non glielo avesse chiesto dall'inizio; forse perché dal primo folle momento che si erano incontrati avevano avuto una sorta di legame, sapere il proprio nome non era necessario per conoscersi. «Spero di rivederti presto, Minho» e detto ciò, Jisung chiuse la porta dietro le sue spalle, lasciando solo Minho fisicamente ma non con la mente.

minsung; retryDove le storie prendono vita. Scoprilo ora