Capitolo 14: Solo per quella fetta di sole

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Due anni prima, 01/01Città di San Diego

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Due anni prima, 01/01
Città di San Diego

Apro gli occhi lentamente, cercando di far in modo che essi si abituino alla luce che li ferisce senza fermarsi di fronte al loro essere disarmati e, quando riesco a mettere a fuoco qualcosa, incomincio a guardarmi intorno per capire che cosa c'è che non mi quadra questa mattina.
Un peso sul petto mi costringe ad alzare solo il collo per osservare cosa tenta di bloccarmi il respiro e intravedo una montagna scura che segue il lento movimento dei miei respiri; allungo le braccia e la sposto, scoprendo che si tratta della testa di mia sorella. Mi alzo in piedi, stiracchiando i muscoli indolenziti e mi dirigo con urgenza al bagno, tenendo gli occhi socchiusi per non soccombere alla luce.
Con i pensieri del tutto spenti, non mi faccio domande e torno in cucina per potermi dissetare; mi fermo prima, però, quando dei vestiti a terra interrompono il mio cammino. Cado e sbatto le ginocchia contro il pavimento freddo e, allo stesso tempo, una fitta alla testa si propaga come prolungamento di quello avvertito agli arti.
Solo molto più forte e intenso.
Prendo quegli indumenti tra le mani per osservarli, ma non mi viene in mente nulla su come potrebbero essere finiti lì e torno a sentire la gola in fiamme; così riprendo il mio cammino a quattro zampe per evitare un'altra caduta.
E altro dolore alle tempie.

«Buongiorno.»
Lo sento urlare alle mie spalle e mi porto le mani sulla testa, mentre salto per lo spavento e mi volto verso la proprietaria della voce.
«Non urlare, te ne prego.» Anche parlare mi provoca un indicibile dolore, ma vedo che anche Alex compie i miei movimenti e muove il viso come per scacciare quell'orribile martello pneumatico che sta distruggendo anche tutti i miei pensieri.
«Non urlare tu.»
Mi tappo le orecchie, sperando che questo possa servire ad attenuare tutto quello che mi sta travolgendo e rimango in silenzio.
«Mi spieghi il motivo per cui sei in mutande?»
Riprendo a tapparmi le orecchie, ma abbasso lo sguardo sul mio corpo; osservando come, effettivamente, Alex abbia ragione e che io sia coperto solo da un paio di boxer rossi. Mi tornano alla mente alcuni ricordi precedenti alla festa, quando mi stavo preparando e mi è capitato questo intimo tra le mani e le parole di mia mamma nella testa, ma poi torna a essere tutto buio.
Alzo le spalle, optando per il silenzio e il benessere della mia testa.

«San Pennacchio del Piacere, ho bisogno di prendere qualcosa.»
Rinuncio a compiere alcun movimento, finché non ricordo delle aspirine nascoste in qualche antina di questa cucina e mi metto a cercarle, esultando quando finiscono nelle mie mani.
«Smettila di urlare, Pennacchione santo!»
Riempio due bicchieri con dell'acqua e ne passo uno alla ragazza dai capelli rossi che si spargono disordinati come mai sul lungo vestito giallo. Prendiamo quella miracolosa pastiglia e aspettiamo che faccia effetto.
Nel silenzio che avvolge questa casa, interrotto solo dal ritmico e costante ticchettio dell'orologio posto sopra la porta, cerco di tornare indietro coi pensieri e ricordarmi che cosa abbiamo combinato prima di addormentarci per terra, senza riuscirci.
«Ma quanto abbiamo bevuto ieri notte?»
Guardo male la mia compagna di aspirine e scuoto la testa mi torna in mente la sua idea di bere alcolici esposta dopo la mezzanotte:
«Non abbiamo bevuto, te l'avevo vietato.»
Alza lo sguardo, prima puntato sul tavolo scuro, e lo punta nei miei occhi marroni e si lascia sfuggire un sorriso; pare di scherno, ma non ne sono sicuro.
«Allora non devo averti ascoltato, perché ricordo molto bene di aver manomesso la bottiglia di Coca Cola con della Vodka di tuo padre.»
Spalanco gli occhi e una nuova fitta colpisce la mia testa, obbligandomi a chiudere gli occhi e a compiere respiri profondi.

Il mio amore sbagliatoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora