41. SUI PROPRI PASSI

1K 81 463
                                    

Nel sogno, papà è seduto accanto a me, sul fondo del letto.

Mi fissa con i suoi profondi occhi verdi, scuri come una selva ombrosa, e ha un sorriso mesto sulle labbra. Una luce tiepida gli getta bagliori argentei sul viso, intessendo fili scintillanti sui suoi capelli. Biondi e lucenti, hanno il colore delle balle di fieno, prima che il sole estivo le trasformi in paglia dorata. La sua pelle non è abbronzata come la ricordavo, ma neanche pallida: un bianco roseo di qualcuno che non è stato al sole per mesi, o anni.

Per il resto, è uguale a sette anni fa, senza rughe né ciuffi grigi. Non è invecchiato, eppure c'è qualcosa di diverso in lui, nel suo sguardo. Un tormento che sconfina nella stanchezza: sembra quasi che il tempo passato abbia prostrato il suo animo, ancora prima del suo corpo.

Sta soffrendo, lo sento. Lo percepisco dentro di me, come se il suo dolore fosse anche il mio.
Vorrei abbracciarlo per cancellare la sua sofferenza, stringerlo forte per annullare la sua solitudine, ma non ci riesco. Sono congelata, paralizzata. Una muta spettatrice che prova la sua stessa agonia, pur non potendo fare nulla per aiutarlo.

La sua voce mi giunge in sussurro, calda e dolce, simile ad un'eco che si leva dal passato. «Mi manchi, Key».

"Anche tu" rispondo. O meglio, è ciò che farei, se il silenzio non consumasse le mie parole, trasformandole in un rantolo indistinto.

Mio padre si sporge e mi scosta una ciocca blu dalla guancia, asciugandomi le lacrime con una carezza. È un gesto lieve e delicato, fatto con la tenerezza di chi sfiora un fiore raro o un cucciolo indifeso. Eppure il suo dito è così freddo da farmi rabbrividire.

Forse, il tocco di un caro defunto è questo... il fuoco dell'amore unito al gelo della morte.

"Ti voglio bene, principessa" mormora, dandomi un bacino sul naso. Lo faceva ogni volta che piangevo, per farmi stare meglio.

Per un secondo, il suo profumo di borotalco mi avvolge, famigliare come l'aroma d'incenso per un sacerdote o l'ossigeno stesso nei polmoni.
Un odore che mi riporta a New Orleans, al jazz nelle strade, alla magia nell'aria, al cavalletto nel giardino, al cielo stellato, ai disegni che facevo seduta sulle sue gambe. A casa.
La nostra casa.

Quando vedo che si sta alzando, il mio cuore esplode in gola. Gli grido di non andarsene, di non lasciarmi di nuovo. Lotto ferocemente contro la forza invisibile che mi blocca, cercando di allungare la mano per afferrarlo o di gettarmi verso di lui per poterlo seguire.

Ma è tutto vano.
La figura di mio padre inizia a tremolare e a sbiadire, a poco a poco che si allontana, fino a che svanisce nell'oscurità.
Infine, le tenebre inghiottono anche me.

Un refolo pungente mi lambisce il volto, carico di gocce gelide che mi pizzicano come zanzare. Sto tremando fino a sbattere i denti e, nel sonno, mi sono avvolta in un lembo di coperta per proteggermi dal brusco calo di temperatura.

Sollevo lentamente le palpebre, ma sono ancora così intontita e frastornata che impiego qualche secondo a svegliarmi del tutto.
Un'altra ondata di vento penetra dalla finestra e mi investe, riempiendo di puntini scuri le lenzuola. Entrambe le ante sono spalancate, le tende in poliestere color cobalto che oscillano sulla moquette bagnata.
Non ricordavo di averla aperta.

Sono riversa su un fianco, in bilico sul bordo del materasso, con le mani avvinghiate al cuscino e la foto dei miei genitori appiccicata alla faccia. Con un movimento fiacco, la stacco e guardo un istante l'immagine di mio padre, ripensando al sogno. Era così realistico che è stato come perderlo ancora una volta. Ma vederlo partire, sapendo già che non sarebbe mai tornato, è infinitamente più doloroso.

RememberDove le storie prendono vita. Scoprilo ora