47. QUESTIONI DI FAMIGLIA

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P.O.V. Klaus

Per un attimo, un paio di occhi privi di iride mi restituiscono lo sguardo. Due piccoli frammenti di tenebre sospesi davanti a me, vuoti e spenti come il cielo di una notte senza stelle.

Dura un secondo, non di più. Il tempo di un battito di ciglia, ma abbastanza per congelarmi l'aria nei polmoni, trasformandola in lame di ghiaccio conficcate nel petto. Percepisco i ricordi strisciare fuori dalla mia mente, così vividi e concreti che sembrano avvinghiarsi al mio corpo in una stretta soffocante.

Le sue mani ruvide che mi stringevano i capelli, il dolore ai gomiti quando mi ha scaraventato nella cabina armadio, la rabbia che fiammeggiava nelle pozze buie incise sul suo volto. Quando era davvero furibondo, assumevano una tonalità ancora più cupa, simile a quella delle nubi che si addensano prima di un temporale, e avevo sempre l'impressione che mi avrebbero inghiottito.

Non riuscivo a provare altro che paura di fronte a quegli occhi, a quei buchi neri che si nutrivano di qualsiasi altro sentimento.

L'uomo cattivo mi aveva guardato mentre mi rannicchiavo in un angolo, tremando a testa bassa per fargli capire che avrei obbedito. Voleva che fossi docile e sottomesso, e lo sarei stato: forse, in questo modo, avrebbe smesso di farmi del male.

«Non muoverti finché non torno». La sua voce, graffiante come vetro scheggiato, mi aveva fatto sussultare. «Sai cosa succede se mi disobbedisci».

Mi riscuoto con un brivido gelido, ritrovandomi di colpo davanti allo specchio nel mio bagno. Appena mi accorgo del pallore sul mio viso, vengo assalito da un impeto di frustrazione e mi affretto a sciacquarmi, sperando di lavare via il terrore che mi scioglie le viscere.

Prendo un asciugamano e me lo strofino sulla faccia e sul torace. Esitante, sfioro una delle cicatrici rotonde impresse sulla pelle, ripensando al calore bruciante della sigaretta che si spegneva sfrigolando.

«Basta!» sussurro a me stesso. «Lui non è qui, idiota!» Se non avessi un'emicrania terribile, mi sarei già dato uno schiaffo.

Vado nella mia camera e apro l'armadio, ignorando la sensazione di panico alla bocca dello stomaco. All'interno, maglioni e pullover sono impilati con cura e le camicie sono appese in ordine cromatico, accanto alle giacche. Prendo una delle felpe, piegate e disposte in basso dalle più vecchie alle più nuove. Se ci fosse Keeley al mio posto, probabilmente la metterebbe al contrario.

Dopo essermi vestito, scendo a fare colazione. Lungo il tragitto, noto che alcune ragazze del personale mi salutano con ghigni maliziosi e confabulano sottovoce al mio passaggio.
Sono abituato alle loro attenzioni, ovviamente, ma di solito si limitano ad allungarmi occhiate languide e sorrisini smielati, a parte poche audaci che mi si avvicinano per chiedermi se ho bisogno di qualcosa. Giuro che, a volte, ho il sospetto che ci sia un messaggio velato dietro quella richiesta.

Non ho ancora varcato la soglia che vedo Liam. È in piedi e sta ammirando il proprio riflesso sulla vetrata che si affaccia al giardino, intento a sistemarsi i capelli con le dita. A giudicare dalla sua estrema concentrazione, deve essere un procedimento delicato pari a un intervento chirurgico.

Scoppio in una fragorosa risata. «Sei peggio di nostra sorella» commento, entrando.

Qualcun altro sarebbe trasalito o avrebbe fatto uno scatto sorpreso, invece Liam si volta con un movimento disinvolto. In sette anni, non credo di aver mai trovato qualcuno che riuscisse a coglierlo alla sprovvista. «Ammetto di non capire questo pregiudizio sugli uomini che tengono al proprio aspetto».

«Ottima scusa per farti bello per la tua cameriera» ammicco, massaggiandomi le tempie pulsanti.

In silenzio, Liam scosta una sedia e indica il vassoio posato sul tavolo rotondo: una ciotola di porridge d'avena e una tazza fumante piena di un liquido dorato con uno spicchio di limone. Abbozzo un sorriso, intuendo che deve essere opera di Carol.

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