53. IL BRANCO PT.1

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P.O.V. KLAUS

Quando entro nella sua camera, Matt è chino sulla scrivania invasa di fogli e vari gingilli che mi ha spiegato essersi procurato nei suoi tanti viaggi in giro per il mondo -una collezione di minerali dell'isola d'Elba, un narghilè d'ottone decorato in stile egiziano, tabacchiere e ceramiche di fattura cinese, uno strumento a fiato tipico dell'Australia chiamato didgeridoo, una clessidra di sabbia del deserto come souvenir del Wadi Rum e così via.

Tutto, ovviamente, in assoluto disordine.

Il mio passo felpato mi permette di avvicinarmi senza che si accorga della mia presenza. Inoltre, sono così abituato al caos della stanza da muovermi con disinvoltura, evitando di inciampare sui vestiti disseminati ovunque o di urtare le tavole da surf sparse a terra.
In piedi, con la schiena incurvata in avanti, potrei quasi pensare che stia scrivendo, malgrado sarebbe una posizione alquanto insolita.

Invece, appena mi scanso di lato per avere una visuale migliore, noto che stringe una cannuccia infilata in una narice anziché in bocca. È riuscito a ricavare uno spazio libero sul piano di legno e vi ha cosparso sopra due strisce di polvere bianchissima che è intento a inalare.

Aggrotto la fronte, confuso. «Hai raffreddore?»

Matt trasalisce e sbatte il fianco allo spigolo della scrivania, ma recupera l'equilibrio prima di cadere. «Merda!» Mi scocca un'occhiata di puro orrore e, farfugliando altre imprecazioni, si affretta a spazzare via la strana sostanza con un gesto brusco.

In un attimo, un pulviscolo fine aleggia nell'aria mentre dei minuscoli granelli candidi si depositano sul pavimento, simili a fiocchi di neve.

Indietreggio di scatto, attraversato da un brivido. «Ho... fatto qualcosa di sbagliato?» chiedo dubbioso.

«No, no, scusa. Non volevo spaventarti». La voce di Matt è affannata, incerta. Le mani gli tremano e continua a spostare il peso da una gamba all'altra in maniera irrequieta, apparentemente incapace di stare fermo. Abbozza un sorriso nervoso. «Cosa... cosa ti serve, Mozart?»

Il suo sguardo scioglie subito la paura che mi aveva assalito, sostituita da un moto di solidarietà. È uguale a quello che vedo tutti i giorni nel mio riflesso allo specchio: pieno di terrore, di vergogna e odio per sé stesso.
Posso vedere quel turbinio di sentimenti che infuria nei suoi occhi blu, al momento sbarrati, rendendoli così profondi da ricordare il colore cupo e triste delle acque dell'oceano.

Quanto vorrei avere il potere di farlo stare meglio, come lui riesce a fare con me grazie alla sua musica...

Indico il pianoforte bianco di fronte alla finestra, lucido e scintillante alla luce rosata del mattino. «Dovevamo esercitarci».

Segue la traiettoria del mio dito, strizzando le palpebre. A giudicare dal suo cipiglio stordito, deve compiere uno sforzo immane per concentrarsi quanto basta ad assimilare le mie parole.

«Ah, giusto! L'avevo dimenticato!» Si scompiglia i capelli che ha tagliato di recente. Adesso, corti poco sotto le orecchie, il suo naturale castano ha assunto una tonalità così chiara da apparire dorato. «Oggi è meglio di no, perdonami. Ho un mal di testa terribile».

Non faccio fatica a credergli. Pallido, con un paio di occhiaie violacee e le guance arrossate, ha l'aspetto di qualcuno che ha preso una pesante forma d'influenza. O una sbronza. Di certo, la bottiglia vuota di un qualche liquore abbandonata in un angolo propende per la seconda ipotesi.

Annuisco. «Va bene. Allora ti lascio riposare» mormoro con una punta di delusione, battendo in ritirata.

«Se ti va, possiamo fare una passeggiata, però». Dal suo tono trapela una nota speranzosa.

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