34. LA LEGGENDA DI CÉLINE DUBOIS

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P.O.V. KLAUS


Detesto il disordine.

Sono sempre stato convinto che ogni cosa abbia un posto preciso da occupare e, spostarla, significa spezzare l'armonia di un insieme perfetto.
Tutto, anche le persone, deve avere uno spazio che sia solo suo.

Per questo, probabilmente, il caos che regna nella Corvette nera di Alaric mi turba tanto da farmi prudere le dita dal desiderio di sistemarla.
I sedili sono invasi da vecchie riviste sbiadite, pacchi di fazzoletti, sacchetti di cibo d'asporto ancora sporchi di ketchup e perfino un preservativo usato. La moquette scura, con motivi floreali ricamati in oro sui tappetini, è un campo di battaglia tra lattine vuote di cola e bottiglie d'acqua scadute da mesi, se non anni.

«Ho un'idea».

La voce di Keeley mi riscuote e, per l'ennesima volta, rimango stupito da quanto sia diversa dalla sua.

Quella di Elizabeth era sottile e limpida, ma venata di un brio frizzante e allegro. Se avessi dovuto paragonarla ad uno strumento musicale, sarebbe stata un flauto traverso, con il suo binomio di vivacità e delicatezza.

Keeley, invece, è più simile ad un clarinetto che non puoi fare a meno di ascoltare: audace, grintoso e imprevedibile.
Per gran parte del tempo, il suo timbro è permeato di pungente ironia, ma a volte, quando si mostra davvero, emerge quel contrasto di potenza e dolcezza. E, sotto di esso, solo un orecchio attento può cogliere le note della sua fragilità.

«Assolutamente no» rispondo risoluto.

«Ma non l'hai ancora sentita!»

Ruoto il volante e l'auto scivola leggera oltre la curva che si inoltra tra due colline. La velocità non è eccessiva, ma il motore continua a ruggire, come un fiero purosangue che freme per gettarsi al galoppo.

Scrollo le spalle. «Se l'hai avuta tu, significa che sarà pessima».

Ci troviamo poco fuori Sunset Hills, circondati da distese gibbose in cui si sviluppa una fitta boscaglia di alberi nodosi, incappucciati di bianco. I roveti e i cespugli che costeggiano la strada sono così carichi di neve da ricordare grossi gnomi disposti in fila indiana.
Soltanto poche costruzioni si ergono nel regno della natura, perlopiù timide case punteggiate di stalle e fattorie, ma anche imponenti magioni con ampie tenute, senza dubbio antiche dimore aristocratiche.

Keeley si volta e rivolge lo sguardo sul paesaggio. «Potremmo parlare con Alizée». Prende un respiro profondo, strusciandosi nervosamente una mano sui jeans. «Se la donna buona...»

«La dobbiamo davvero chiamare così? È un nome ridicolo».

Di sbieco, la vedo inarcare un sopracciglio nella mia direzione. «Preferisci “Donna-che-forse-è-Gladys-o-forse-no”?»

Scuoto il capo, rassegnato, e puntello il gomito contro il finestrino, le dita che picchiettano sul volante.
L'anello con il leone scintilla al mio indice, la pietra d'onice che cattura i riflessi purpurei del crepuscolo, che ha già gettato i primi stracci giallastri e arancioni nel cielo pallido.

«Comunque, se la donna buona ti ha portato alla villa, Crudelia deve averla incontrata». Un tremito percorre le sue parole, lasciando trapelare una punta d'ansia. «E, ehm, magari la conosce. O ha fatto ricerche su di lei, come su mio padre».

Quando una buca fa sobbalzare la macchina, Keeley si aggrappa alla portiera e la stringe forte.
Un clangore di bottiglie e lattine che rotolano e si scontrano riecheggia sopra la canzone jazz sparata a tutto volume dalla radio.
Ovviamente, non l'ho scelta io. 

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