59. SOLO PER STANOTTE

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Mi sveglio un attimo prima dello sparo, con un terrore gelido che mi si annida nel petto. Le parole dell'uomo mi rimbombano ancora nelle orecchie, la sua voce orribilmente uguale a quella di Alaric mentre le pronuncia: «Ho l'ordine di non fare del male alla ragazza... ma questo non vale anche per te».

Forse per l'incubo ancora vivido nella mia mente, non mi accorgo subito di non essere sola. Eppure, quando sento un fruscio di pagine che spezza il silenzio, non mi spavento. Anzi, il suono di un respiro costante e leggero –familiare come se fosse il mio– mi infonde un profondo senso di tranquillità.

Sperando di farlo sembrare un movimento involontario, mi giro di lato in direzione della finestra e sbircio tra le ciglia. La camera è immersa nell'oscurità, tranne che per gli esili spicchi di luce argentea che filtrano dalle fessure della serranda. Abbastanza per illuminare la figura affusolata rannicchiata sul tappeto, con la schiena appoggiata al palo di legno del baldacchino.

Indossa solo una felpa scura, talmente larga che le mani gli spuntano appena dalle maniche troppo lunghe, ma poco lontano c'è un giubbotto fradicio abbandonato sullo schienale della sedia. Sulle gambe regge il mio blocco da disegno che sta sfogliando lentamente, fermandosi a fissare persino le bozze quasi fossero delle meravigliose opere d'arte.

Per me, invece, il capolavoro da ammirare è lui.

La sua pelle bianca sembra scintillare nel buio come marmo levigato, cosparsa di tante goccioline d'acqua simili a diamanti. I capelli risplendono di riflessi mielati, ancora lucidi e umidi per la pioggia, con una ciocca ribelle che muoio dalla voglia di scansargli dalla fronte. Le ombre danzano sul suo viso, facendo spiccare la cicatrice affilata. E quello sguardo tormentato di chi ha dimenticato cosa sia la pace.

In questo momento, mi ricorda uno di quei personaggi della letteratura romantica di cui mi raccontava mio padre. Eroi solitari che combattono contro un destino crudele al quale non vogliono rassegnarsi, pur sapendo che sarà sempre troppo forte per essere sconfitto. Si piegano, ma non si spezzano e, alla fine, si risollevano solo per essere colpiti di nuovo, allo stesso modo della ginestra scritta da Leopardi. Coraggioso ma fragile, disilluso ma ostinato, docile ma resistente, ugualmente vinto e vincitore del fato.

Il mio angelo nero, magnifico nella sua eterna caduta.

All'improvviso, Klaus si alza e ripone il blocco da disegno sul comodino, vicino allo scrigno chiuso che non sono ancora riuscita ad aprire. Si muove senza produrre il minimo rumore, con la solita grazia felina di un leone, e ogni suo gesto possiede una movenza fluida e armoniosa che coinvolge tutto il corpo slanciato.

Lo spio di sottecchi mentre si inginocchia mollemente per terra, accanto al fondo del letto, puntellando i gomiti sul bordo. Osserva i cuscini su cui tengo i piedi, le orecchiette da coniglio del pigiama alla rovescia e infine me; le sue labbra si increspano in un sorriso malinconico che lo rende ancora più irresistibile.

«Sei strana anche quando dormi» mormora affettuoso, e un brivido mi scende lungo la schiena nel sentire il suo accento inglese.

Prima di conoscerlo, non avrei mai creduto che si potesse desiderare qualcuno con quello stesso impeto disperato con cui un moribondo stringerebbe i suoi ultimi soffi di vita. Uno, ancora un altro, un altro e poi basta... ma, in realtà, non sarà mai sufficiente.

Non esiste resa possibile, se ciò che perderesti è anche tutto ciò che vuoi.

«Ti ho sentita, quella volta a Clayton. Eravamo in macchina e tu credevi stessi dormendo, allora hai cominciato a parlarmi. Di tuo padre, di tua zia, della paura di perdermi com'è successo con loro. Ho sentito tutto, anche quando hai detto di amarmi».

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