43. QUELLO CHE CERCHI È VICINO

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La punta della matita scivola sul foglio, tracciando con tratto leggero delle linee delicate e ricurve. Soffio via il ciuffo blu che mi ricade sul naso e continuo a delineare i bordi del volto. Ma, quando mi fermo per osservare il mio operato, emetto uno sbuffo insoddisfatto.
Prendo la gomma e cancello l'angolo troppo spigoloso della mascella, modellandolo in una forma più arrotondata.

Molto meglio!

Con un piccolo sorriso, passo ai capelli. Corti e arruffati, di un biondo venato di luce dorata. Non ho colori a pastello, quindi mi limito a gettare ombre sfumate con la matita. Per un attimo, provo di nuovo la sensazione delle mie dita che affondano tra le sue ciocche morbide, impregnate di pioggia. Se avessi potuto, sarei rimasta ad accarezzarlo per ore, calmando i suoi sogni inquieti con il mio tocco.

Scaccio quel pensiero e mi dedico ai dettagli del viso. Gli occhi sono la parte più facile; fin dal primo momento che si sono incatenati ai miei, quella sera a cena, hanno avuto il potere di leggermi dentro. Anche se non li avessi ammirati così tante volte, mi sarebbero rimasti impressi nella mente comunque.
La mia mano si muove senza nessuna esitazione: il grigio della mina non rende giustizia all'argento delle sue iridi, ma tutto sommato non è male. Ho anche cosparso dei punti più scuri a rappresentare le pagliuzze blu.
Infine, aggiungo una riga sottile e netta che gli spezza il sopracciglio destro e prosegue fino alla guancia.

Puntellata sui gomiti, porto la matita alle labbra e ne mordicchio l'estremità legnosa, sospirando. È un ritratto abbastanza fedele, eppure sento che manca qualcosa. Forse, il ghigno impertinente che gli increspa la bocca o lo spettro tormentato che offusca il suo sguardo. Semplicemente, non c'è... lui.

Magari, non sono abbastanza brava, o mio padre aveva ragione: si può davvero catturare l'essenza, l'anima di qualcuno con l'arte?

«Che stai facendo per terra?» La voce sferza il silenzio come un pugnale che squarcia un lenzuolo.

Sussulto, tirandomi a sedere di scatto sul pavimento. Mi trovo sotto la finestra dalle tende scostate, in uno specchio argentato di luna. Nonostante il lampadario sia spento, in quanto detesto l'effetto della luce artificiale sui dipinti, la camera non è troppo buia.

«Carotino!»

Simon aggrotta la fronte, in piedi sulla soglia con un cartone di pizza in equilibrio sul palmo. Indossa un buffo cardigan cremisi con una renna ricamata sul lato sinistro. Appena l'ho visto, al mio ritorno da Clayton, l'ho preso in giro sul fatto che mancano circa due mesi a Natale. Mi ha risposto che è il maglione più di pesante che abbia trovato nel suo armadio -e non è un segreto che è molto freddoloso.

«Tutto bene?» mi chiede perplesso. «Sembri agitata».

Devo avere i nervi ancora tesi da questo pomeriggio, infatti mi scopro a stringere la matita con tale forza da sbiancarmi le nocche. La ripongo nell'astuccio e annuisco. Intanto, il mio cuore rallenta la sua corsa frenetica che minacciava di farlo schizzare fuori dalla gabbia toracica.

«Ti ho trasmesso il vizio di non bussare, per caso? Non credevo fosse contagioso».

«Ma io ho bussato». Simon dà un colpetto alla porta con il tallone per richiuderla. Solo allora mi accorgo che ha con sé anche una lattina di cola. «Eri distratta e non mi hai sentito. Cosa stai disegnando?»

Tuo fratello. «Niente» dico invece. Non è neanche una vera bugia: Klaus non è mica una "cosa", dopotutto.

Appena lo vedo allungare il collo per sbirciare sul blocco da disegno, mi affretto a girare la pagina, cercando di farlo apparire un gesto casuale. «Va bene, mi hai beccata. È un ritratto di Lisa Ann a tette scoperte».

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