71. COME LE ALI DI UN ANGELO

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P.O.V. KLAUS

Con i gomiti puntellati alla balaustra, osservo la vallata che si stende attorno alla collina; una distesa di prati e boschi di pini che si perdono fino al profilo dentellato tracciato dalle montagne all'orizzonte. Il sole del primo pomeriggio campeggia nell'azzurro limpido del cielo e il vento pungente che mi accarezza il viso è permeato dal profumo dei gigli che tingono di colori vivaci il giardino del Saint Mary.

Comincio a rigirare l'anello attorno al dito in un gesto meccanico, ma poi mi ricordo di non averlo addosso. Liam lo ha preso per estrarre il microchip nascosto sotto la pietra d'onice e non me lo ha ancora restituito. Allora la mia mano scivola nella tasca dei pantaloni e tiro fuori il grimaldello bulgaro, l'unico regalo che Vincent mi abbia fatto in tutta la mia vita.

«Ci sei andato a letto?»

Aggrotto la fronte, l'alcol che mi rende difficile comprendere il significato delle sue parole. «Che?»

«Adesso che ho risposto alle tue domande, piccolino, è il tuo turno di essere sincero con me. Mi sembra equo, no? Quindi dimmi: sei andato a letto con le Storm?»

«Non...» Scuoto il capo, frastornato. Devo aver sentito male. «Cosa c'entra?»

La sua presa sui miei capelli diventa dolorosa e mi costringe ad avvicinarmi in modo da sussurrare al mio orecchio: «Voglio sapere quanto devo punirti. Sai che non permetto a nessuno di toccare ciò che è mio».

Chiudo gli occhi, cercando di respingere gli sprazzi di ricordi che continuano a riaffiorare. Credevo di aver dimenticato tutto di quello che è successo dopo la fine del giochino alcolico e che, delle sue torture, fossero rimaste solo le ferite ancora pulsanti sulla schiena.

Invece no. E se non ho dubbi che il mio corpo possa sopportare nuove cicatrici, non confido troppo che la mia mente riesca a fare altrettanto.

«Klaus».

Mi giro di scatto. Il mio cuore, schizzato in gola, rallenta la sua corsa appena vedo Liam fermo a un paio di metri di distanza. Avrei dovuto immaginare che mi avrebbe seguito; preoccuparsi per me è diventato un suo riflesso incondizionato.

«Perché non mi hai detto dell'incidente?» gli chiedo, rimettendo in tasca il grimaldello.

«Tu come...»

«C'è un esaustivo articolo sul Sunset Times».

Liam mi fissa con un'espressione premurosa. «Mi dispiace. Dopo quello che hai passato, volevo darti un po' di tregua».

Torno a chinarmi sul parapetto di legno, osservando le minuscole sagome degli edifici che dalla città spuntano in lontananza. Uno di quei puntini è la villa dove c'è la famiglia che ho quasi abbandonato. Un altro è l'ospedale in cui è ricoverata la donna che mi ha dato alla luce.

«Nostro padre e Edric stanno bene» mi rassicura Liam, posizionandosi al mio fianco.

In altre circostanze mi verrebbe da sorridere al pensiero di come ha definito Ian, considerato che biologicamente non è padre di nessuno dei due. «Dovresti andare dai nostri fratelli. Sai che hanno bisogno di te».

«Hanno bisogno di entrambi, dunque rassegnati». Abbozza un mezzo sorriso. «Andrò a casa quando ci andrai tu».

Emetto un sospiro frustrato. «Non mi serve un baby sitter, William».

«Visto il tuo recente comportamento, non ne sono tanto sicuro».

Faccio per scoccargli un'occhiataccia, ma mi scontro con uno sguardo così profondo da paralizzarmi. Esito, assalito da un bruciante senso di colpa. «Sei arrabbiato, vero?» sussurro a fil di voce.

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