51. PER UCCIDERE IL TUO DEMONE

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P.O.V. KLAUS

"Com'è andata la cena?
Ah! Il tuo consiglio faceva schifo. Ho fatto un casino".

È ciò che scrivo nel messaggio, dopo essermi buttato sul muretto intorno a uno dei cortili della scuola. È un parchetto collocato non lontano dall'osservatorio, con eleganti gazebi di legno per ripararsi dalla pioggia e un ventaglio di panche che si stende di fronte a un grande palco. Al momento, nessuno si sta esibendo, ma dalle casse ai lati è sparata a tutto volume una martellante canzone trap che un manipolo di scalmanati si diverte a storpiare.

Ripongo il telefono nei jeans e sollevo la testa, socchiudendo le palpebre per proteggermi dalla luce accecante. Nonostante sia ancora primo mattino, il sole spicca alto sul fondo azzurro di un cielo limpido e terso. I suoi raggi cocenti incendiano di riverberi dorati la distesa di foglie secche, sparpagliate sull'erba del prato o ammassate ai piedi degli alberi che costeggiano i sentieri lastricati. Solo una brezza pungente, con le sue timide raffiche, ricorda che siamo in pieno autunno.

Passandomi accanto, molte ragazze mi rivolgono sorrisini stucchevoli e sembrano fare di tutto per attirare la mia attenzione. Alcune si sono addirittura avvicinate per salutarmi e, posta la domanda di rito («Sai già con chi andrai al matrimonio?»), hanno cercato di trascinarmi in una conversazione.

Alla fine, stanche delle mie risposte a monosillabi o vaghe alzate di spalle, hanno capito che non avevo voglia di parlare e se ne sono andate, in parte deluse e in parte oltraggiate. Probabilmente, avranno confabulato sul mio comportamento, associandolo al mio essere "strano e disturbato". Credo sia la definizione più gettonata per descrivermi, sebbene venga applicata spesso anche agli Hallander in generale.

Potrei dire che ero troppo assorto nei miei pensieri, ma in realtà ne ho uno solo da stanotte. Un chiodo fisso che mi si è conficcato nel cervello dall'istante in cui mi sono messo sotto il getto della doccia per eliminare i residui di cloro, ma soprattutto per schiarirmi le idee. L'ho baciata...

Come diavolo ho potuto baciarla?

Non era ciò che avevo programmato. Durante la cena avevo approfittato dell'assenza di Keeley, in punizione per essere sgattaiolata chissà dove con Stefan nel pomeriggio, in modo da ragionare a mente fredda su cosa dirle. Dovevo scusarmi, dovevo spiegarle quanto disperatamente volessi il suo perdono: questo era indispensabile.

Le parole di mio zio, però, continuavano a ronzarmi nelle orecchie e mi sono ritrovato a essere onesto con lei, forse più di quanto lo sia mai stato con qualcuno da tanto tempo: nel mio piano, le avrei confessato i miei sentimenti, certo, ma anche qualcos'altro.

La verità. Quella che avrei dovuto dirle fin da quel giorno che ha scoperto della morte di Elizabeth, quella che mi ha rinfacciato Alizée nel suo studio, aprendomi gli occhi su quanto sia orrendo quello che - involontariamente - sto facendo. Invece, ho rovinato ogni cosa. L'ho baciata, pur sapendo che non avrei dovuto, che sta uscendo con Simon e... ed è stato magnifico.

«Ehi, amico! Siamo mattinieri, oggi!» Alaric mi raggiunge, con i capelli neri plastificati da un quintale di gel e la carnagione olivastra che scintilla come bronzo. «Chi ha messo questa roba? Vorrei dargli delle dritte sui suoi discutibili gusti musicali» esclama, agganciando i pollici alla fascia che gli sorregge i pantaloni alla turca.

Con un brivido di piacere, ripenso a Keeley che mi afferra per la cintura e mi tira contro di sé, senza la minima traccia di esitazione. Non sembrava avere dubbi su ciò che voleva. E, per qualche assurda ragione, voleva me.

«Allora?» Alaric mi dà un colpetto alla spalla e si guarda intorno. Le sue iridi scure sono accese di riflessi perlati. «Dov'è il resto della squadra?»

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