62. CASA BLACKWOOD

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Fredda.

Se dovessi descrivere la tenuta in campagna dei Blackwood in due parole, sceglierei proprio queste: fredda e vuota.

Ad essere onesta, da fuori ho subito pensato che fosse splendida: un massiccio casale in pietra costruito in uno stile vagamente toscano, appollaiato sulla cima di una collina da cui si gode di un panorama mozzafiato. Attorno all'edificio, centinaia di ettari di terreni coltivati e di boschi rigogliosi si stendono oltre a una cornice di cipressi, con scintillanti reticoli di canali abilmente tracciati e una piscina sinuosa affacciata sulla valle.

Se ne ero rimasta affascinata, però, la bellezza del posto è scomparsa nell'istante in cui ho salito i gradini di granito che conducevano all'ingresso e varcato il portone nero dai battenti in ferro. Un freddo cupo pervadeva l'atrio spoglio e grigio, i rumori rimbalzavano contro le alte pareti bianche e, accanto a una scalinata serpeggiante, si trovava il più triste albero di Natale mai concepito –un abete finto tutto aggrovigliato, senza lucine né palline. In effetti, per essere la casa di una devota credente, le decorazioni natalizie sono pressoché inesistenti.

La sensazione che ho provato è stata spiacevole, come quando si cammina per un cimitero e ogni passo, ogni respiro, ogni suono sembra avere il potere di risvegliare i morti. Oggi, a distanza di un giorno e mezzo dal mio arrivo, non è ancora scomparsa, ma almeno mi rassicura che neanche i cuccioli Hallander sembrano realmente a loro agio, qui.

Mi ribalto sulla pancia, ignorando lo scricchiolio del materasso mentre passo l'indice sul cavallino di legno. È stato intagliato con la cura metodica tipica di un artista e il mio occhio allenato riconosce con facilità ogni dettaglio di quella tecnica familiare: le rigature morbide della criniera, le nervature sulle zampe, il fisico possente, le rifiniture della sella...

Per l'ennesima volta, mi rendo conto che qualcosa non torna.

Mio padre aveva una sorella maggiore che, stando alle parole di Gladys, è scappata di casa da ragazza, scomparendo dalla sua vita. Céline Dubois discendeva da una famiglia ricca, non certo una di Baker Street visti gli ambienti che frequentava, ha condiviso l'adolescenza con Alizée e mia madre (le foto nell'album ne sono la prova) e infine ha avuto un figlio che ha abbandonato in fasce. Considerato che Jonas ha la mia stessa età e che i miei genitori erano entrambi ventenni o più quando sono nata, i calcoli non tornano.

La conclusione più logica è che non possono essere la stessa persona.

Di conseguenza, la donna con cui ho trascorso gli ultimi sette anni era davvero Céline, la madre di Jonas. E su questo non ho alcun dubbio. Ma non poteva essere la Moira Storm che ha abbandonato la propria famiglia da adolescente, compreso il suo fratellino problematico.

Traduzione: Céline ha finto di essere mia zia.

Traduzione della traduzione: mio padre ha mentito. Di nuovo.

"Beh, comprensibile" penso con amarezza. "Difficile spiegare a una bambina che la stai lasciando a una vecchia amica della madre morta, e non a una sorella che conosci da tutta la vita".

Una fitta di dolore mi percorre il braccio e mi accorgo che sto stringendo forte la statuina. Apro le dita e la guardo, al centro del mio palmo arrossato; Klaus ha detto che apparteneva alla moglie di quella sottospecie di larva umana (altresì chiamato Vincent) che l'ha cresciuto.

Papà non l'avrebbe mai regalata a una sconosciuta. Per lui erano doni speciali, pensieri che riservava solo alla sua regina e alla sua principessa, ma non è da escludere che in passato ne facesse anche per qualcun altro. Magari per il figlioletto del suo migliore amico o per sua...

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